"Le archistar oggi sono i megafoni del capitalismo finanziario. Tutto questo fa dell’architettura solo un’illustrazione dei valori dominanti", diceva. "Io ho sempre pensato che rinunciando alla distanza critica dalla realtà non si possa costruire alcun tipo di pratica artistica"

Maestro del modernismo, Vittorio Gregotti  difendeva l’architettura che non perde di vista l’umano e resiste alla speculazione capitalistica e finanziaria.  A 92 è il decano dell’architettura  è morto oggi a Milano a causa di una polmonite da coronavirus.  Invitando a rileggere i suoi libri e ad approfondire il suo impegno, lo ricordiamo con questa intervista apparsa su Left nel 2010

 

In Tre forme di architettura mancata, da poco uscito per Einaudi, il decano dell’architettura Vittorio Gregotti scrive che l’architettura dei nostri giorni rinuncia al disegno. E così facendo, rinuncia a incidere nel presente. “In questo libro ho tracciato un quadro critico della situazione. Detto questo, non è che manchino buoni architetti, capaci di buone proposte. Ma il fatto è – sottolinea Gregotti – che i nomi di maggior successo oggi sono i più coerenti con la situazione politica mondiale, ovvero con il trionfo della globalizzazione e del capitalismo finanziario. Tutto questo fa dell’architettura solo un’illustrazione dei valori dominanti. Io ho sempre pensato che rinunciando alla distanza critica dalla realtà non si possa costruire alcun tipo di pratica artistica; questa è la riconferma.

Sulla scia del suo intervento al convegno “Idee italiane”, la mondializzazione in architettura è colonialismo o uso positivo delle differenze?
Non solo è un nuovo colonialismo ma è un nuovo autocolonialismo. Guardi un Paese emergente come la Cina: non fa che assumere tutti i caratteri di questa nuova condizione, a cominciare dal consumismo. Rinunciando così alla propria cultura. E, si sa, quando la differenza diventa minore c’è meno interesse reciproco. Bisogna che le persone siano diverse perché ci sia interesse a parlare.

Parlando di immagini in architettura, lei scrive che «l’immagine è forma del pensiero e non solo forma esteriore». Allora Platone aveva torto?
Ma scusi… la crisi della metafisica del linguaggio è una cosa di cui tutta la filosofia contemporanea parla! La considerazione che facevo in quelle pagine è che la proposizione da cui partire dovrebbe essere “io immagino”, non “io sono persuaso che”, o peggio “io credo”. L’architetto ha una prassi dotata di poiesis; disegnando formula un’ipotesi concreta. E qui torniamo all’inizio: il disegno è un progetto di modificazione della realtà, non mimesis. Davanti al foglio bianco o alla tela qualcosa può accadere, qualcosa che ancora non c’è e che si propone in un’opera che ha un’unità di forma e di senso. La flessibilità aperta della forma ha a che fare con la prelogicità dell’“io immagino”.

Contestando il privilegio della parola che da Platone a Sant’Agostino è sempre stata divina, lei rivendica l’importanza di un linguaggio delle immagini più creativo?
Certo, ma bisogna intendersi sulla parola immagine. Il fatto è che oggi, perlopiù, per immagine s’intende la riproduzione di cose e non la produzione. Le cose posseggono un’immagine, comunicano un significato che poi magari cambia nel tempo. Accade spesso che una persona che guarda un’opera le attribuisca significati diversi o ulteriori. Fa parte della capacità delle opere d’arte di essere sempre se stesse e di comunicare sempre nuovi messaggi.

Anche il termine creatività meriterebbe una riflessione più approfondita?

Qui il problema è l’inflazione del termine. Il suo svuotamento di significato. Oggi sono tutti creativi. Perfino la finanza è diventata creativa. In questo modo la prola perde la sua specificità. Che uno debba avere delle idee. essere inventivo, va bene, ma è cosa diversa se uno fa il brevetto di un tappo o, per dire, scopre che gli atomi hanno certe caratteristiche di mobilità. Sono due livelli differenti di capacità di indagine. E’ così anche in arte. E’ in questo ambito di artisticità diffusa e propagandistica che si assiste al passaggio della nozione di disegno ( in quanto progetto)a quella del design, in quanto packaging dell’oggetto in funzione del suo consumo.

Alla carenza di creatività si risponde con l’estetica da kolossal e la spettacolarizzazione?

E’ quella che io chiamo la logica del “bigness”. è la riduzione dell’arte e della cultura allo stupore. Certa architettura di successo fa sua la sfida quantitativa del gigantesco, del fuori scala, del mostruoso perché non ha rapporto con il contesto in cui è inserito. è proprio questa una delle tre forme di architettura mancata contro le quali ho scritto il mio libro.

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Da left-avvenimenti del 15 ottobre 2010

Contro la fine dell’architettura l’impegno di Vittorio Gregotti

Decano del modernismo, Vittorio Gregotti ha anche scritto importanti libri contro il nuovismo forzato delle post metropoli (Contro la fine dell’architettura, Einaudi, 2008 e Architettura e postmetropoli, idem 2011, solo per fare due esempi), nel libro Il possibile necessario (Bompiani) denunciava dello spaesamento che provoca la visione di città sempre più omologate e senza volto, contrassegnate dagli inconfondibili segni delle solite archistar, che fanno somigliare Pechino a Dubai e Hong Kong a Londra. «Archistar giramondo hanno acquisito quello che sembra un controllo totale, un’onniscenza incondizionata e un’autorità suprema, eppure la loro opera non ammonta a quasi nulla. Si sono volontariamente relegati in uno strato claustrofobicamente sottile della produzione totale», ha commentato Carlo Ratti, rilanciando la critica di Gregotti, che da parte prende di mira un’architettura esibizionistica che produce invivibili e giganteschi ready made.

«Degradando a kitsch ogni ricerca di senso e di verità e rendendo forse impossibile qualsiasi riflessione profonda di impegno politico». Ma non è tanto questa comune pars destruens del lavoro di Gregotti a colpire la nostra attenzione, quanto la parte propositiva che si traduce in un appassionato canto a favore di quell’architettura che non ha perso di vista l’umano e che sa valorizzare e rinnovare la tradizione. Rivalutando l’antica esperienza artigiana intesa come ars, ovvero come saper fare e non di rado senza alcuna “griffe”. «Gran parte dell’edilizia corrente o minore è stata per secoli prodotta, in quanto manufatto, da processi spontanei di autocostruzione o di produzione artigiana, secondo regole di lunga tradizione, guidate sia nella tipologia che nel principio insediativo, dall’accettazione costitutiva del disegno della città», scriveva Gregotti, evocando l’atmosfera e l’artisticità della architettura vernacolare, facendoci pensare all’immagine invisibile, latente, variegata eppure armonica, che lasciano intuire certe città medievali.

(Simona Maggiorelli)