Sarebbe interessante capire dove sta la linea di demarcazione che separa un’opinione semplicemente contraria da un’opinione ritenuta invece pericolosa. Allo stesso modo, sarebbe interessante capire rispetto a chi e a che cosa un’opinione considerata pericolosa possa rappresentare un rischio o addirittura una minaccia. In tempi in cui ci si appella alla libertà solo per garantire il corretto funzionamento del mercato, chiedersi fino a che punto si è liberi di esprimere il proprio dissenso non è un esercizio di retorica ma un’urgenza che diventa tanto più necessaria quanto più forte è il tentativo di reprimere ogni aspirazione a vivere in una società diversa.
Maria Edgarda Marcucci, la studentessa romana che tra il 2017 e il 2018 aveva combattuto in Siria a fianco delle Unità di difesa delle donne – l’Ypj – in sostegno della causa curda, per il Tribunale di Torino è «socialmente pericolosa». Per questo il decreto, emesso lo scorso 17 marzo, applica alla giovane attivista la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per i prossimi due anni, una misura di prevenzione che le impone di non allontanarsi da casa dalle 21 alle 7, di non accedere agli esercizi pubblici tra le 18 e le 21 e di non partecipare alle riunioni pubbliche. Infine, di «vivere onestamente, rispettare le leggi».
Come spiegato nel documento, a pesare sulla bilancia non sono stati tanto i singoli episodi quanto «un percorso di vita costantemente orientato in tal senso, incline a violare senza remore i precetti dell’Autorità». In particolare, sarebbe stata le recidività di Eddi durante l’intero periodo in cui si è svolto il procedimento giudiziario (cominciato nel gennaio del 2019) a gravare sulla decisione finale del tribunale, che ha invece assolto gli altri quattro combattenti che erano stati con lei in Siria. La partecipazione a due presidi pacifici e una manifestazione del 1° maggio dimostrano dunque la sua incapacità di modificare la propria condotta.
È evidente che un provvedimento di questo tipo non mira a punire Eddi per qualche reato commesso nello specifico, ma piuttosto per la sua adesione convinta a principi e valori che mettono radicalmente in discussione l’ordinamento esistente, espressa attraverso un atteggiamento, per l’appunto, “costantemente orientato in tal senso”. Sono gli stessi valori che l’hanno portata in Siria a combattere per la libertà del popolo curdo o a partecipare al presidio davanti alla Camera di Commercio di Torino, nel novembre scorso, contro la fornitura d’armamenti militari italiani alla Turchia – valori che una parte considerevole dell’opinione pubblica ritiene giusti.
L’imposizione della sorveglianza speciale nei suoi confronti solleva delle questioni importanti, che ora vengono oscurate dall’emergenza sanitaria in corso ma che non possono essere ignorate a lungo, sul diritto che hanno i cittadini ad esprimere una visione diversa delle cose. Contraria, forse. Per questo pericolosa? Ne abbiamo parlato con Eddi.
La richiesta della sorveglianza speciale suscitò molte polemiche ai suoi tempi, ora è arrivata la conferma ufficiale. Te l’aspettavi?
Più che altro speravo che i magistrati si rendessero conto di come questa decisione non avrebbe incontrato alcuna forma di consenso e che avrebbero quindi fatto un passo indietro, considerate le reazioni avverse dell’opinione pubblica durante l’intero procedimento. Ci sono stati momenti di grande partecipazione della società italiana all’intera vicenda, non solo attraverso una solidarietà nei nostri confronti che si è espressa da ogni lato, ma anche e soprattutto nei confronti della causa per cui eravamo lì a combattere, ritenuta giusta da moltissime persone. È evidente però che c’è una spaccatura profonda tra società civile e Stato, evidente nella valutazione finale da parte dei giudici. Una scelta che si pone in continuità assoluta con l’operato della polizia, che i magistrati non si sono sentiti di sconfessare. Salvaguardando in questo modo quella che di fatto è un’alleanza tra poteri che si garantiscono a vicenda. C’è una continuità di interessi affini che credo sia in netta contrapposizione con la volontà espressa a livello sociale.
Questa spaccatura vale soprattutto nel tuo caso o parli in generale?
Credo ci sia una differenza di atteggiamento tra istituzioni e società molto profonda a qualunque livello. Perché se penso a Lorenzo Orsetti penso a un partigiano, cioè una figura che rappresenta valori fondamentali per tantissime persone nel territorio italiano. Tante e tanti hanno ben chiaro in mente l’importanza di una scelta come la sua, persone che desidererebbero vivere in un mondo diverso, più proteso verso l’altruismo e meno individualista, dove l’impegno e la responsabilità nei confronti degli altri e della propria comunità contano davvero qualcosa. Questo è vero per uno spaccato di persone di una varietà incredibile.
Ne sei sicura? Spesso, senza volerlo, tendiamo a proiettare la nostra visione delle cose sugli altri…
Io ho avuto la fortuna in questo anno e mezzo, da quando sono ritornata dalla rivoluzione confederale, di partecipare a decine di incontri in tutto il territorio nazionale, dal piccolo comune alla grande città. Ho parlato con chiunque, individui di spaccati sociali molto differenti. È un tema che avvicina moltissime persone, perché mette in discussione la stessa forma di vita che caratterizza anche la nostra società, le sue storture e le sue ingiustizie, la sua miseria materiale e non solo. È un tema molto sentito dalla società italiana; non è così invece per lo Stato: nei confronti di Lorenzo ha speso a malapena un tweet e qualche parola di commiato.
Perché è grave questa spaccatura? Secondo alcune teorie la neutralità dello Stato rispetto alla società civile è un bene…
Perché poi chi deve decidere sulla vita degli altri – in questo caso i giudici, ma attraverso loro parla lo Stato italiano – non ha la capacità di percepire nulla di quel che si muove nella società, requisito imprescindibile per poter operare in nome di essa e non contro. La società si è espressa molto chiaramente in questa occasione, dal basso e non solo, dicendo che lo riteneva un provvedimento ignobile, nonché un insulto a tutte le vittime dell’Isis e dei fondamentalismi, un insulto a tutti i martiri e le martiri di questa guerra. Le forze siriane democratiche hanno sacrificato 11mila caduti per difendere, di fatto, l’umanità, perché i morti dell’Isis reclamano giustizia in tutto il mondo. Un po’ di giustizia le forze siriane democratiche gliel’hanno data, lo Stato italiano no. Anzi, dichiara l’impegno nella lotta al terrorismo ma è uno dei primi partner commerciali della Turchia, i cui legami con l’Isis e altre bande jihadiste sono acclarati.
Cosa ne pensi delle misure di prevenzione che ti sono state imposte per i prossimi due anni?
Le rifiuto. La sorveglianza speciale non si applica sulla base di un reato commesso da qualcuno, ma sulla predizione delle sue intenzioni supposte. Trovo inquietante il fatto che si vada a restringere la libertà di una persona a partire dalla previsione di un suo comportamento futuro – previsione formulata nel mio caso attraverso il giudizio di un pubblico ministero che si è formato solo sulle carte della polizia e nient’altro. C’è stata una pregiudiziale forte nel poter produrre dei materiali per la difesa. La pm Emanuela Pedrotta ha detto in luogo di udienza che riteneva superflui i materiali e le memorie prodotti dalla difesa perché erano sufficienti le carte della polizia in merito ai fatti. A volte neanche di fatti veri e propri si trattava ma solo di segnalazioni della mia o della nostra presenza in determinati luoghi, in cui semplicemente ha avuto luogo un presidio.
Cosa diresti a proposito della tua “pericolosità sociale”?
Per me è socialmente pericoloso il Tribunale di Torino, che tiene in carcere Nicoletta Dosio. Socialmente pericoloso, per esempio, è questo Stato che si permette ancora, dopo il tragico numero di vittime causate dal coronavirus, di scrivere decreti ambigui e controversi sulle norme di protezione nei confronti di chi continua a lavorare. Pericoloso è un tribunale che, per esempio, assolve uno stupratore perché la donna che ha aggredito non ha urlato abbastanza. Questo è molto pericoloso perché in Italia c’è un femminicidio ogni 72 ore e questa quarantena non può far altro che esasperare situazioni già di per sé molto complicate. Lo Stato italiano è molto pericoloso per la società italiana e non solo: penso agli accordi sui flussi migratori con la Turchia, ai rapporti commerciali e militari che intratteniamo con Ankara, alle bombe in Kurdistan, all’orrore in Libia, alla devastazione in Latino America.
Perché sei stata condannata solo tu?
Loro in qualche modo dovevano portare a casa il risultato, hanno pensato che probabilmente su di me potevano portarlo a casa più facilmente, perché faccio parte di una categoria di persone – quella delle donne – ritenuta più addomesticabile. Personalmente penso ci sia il perpetrarsi di una differenziale di genere, che è strutturale alla società in tutti i suoi livelli. I toni di questo dispositivo sono molto tarati sul comportamento della persona e le sue credenze. Chiaramente sotto processo ci sono sempre state le nostre idee e il nostro essere conseguenti con esse: si tratta di due visioni del mondo che si scontrano. Nella loro prospettiva, il fatto che sia una donna a non comportarsi secondo le aspettative e i dettami dello Stato risulta ancora più intollerabile.
Pensi dunque che il fatto di essere una donna abbia pesato sulla decisione finale?
Non è che lo penso: lo vedo e lo vivo tutti i giorni cosa significa essere una donna in Italia. Sono i fatti che dicono come lo Stato si comporta nei confronti delle donne, i numeri dei femminicidi e delle violenze (che sono solo quelle che conosciamo), per cui non mi sembra così strano che sia più inaccettabile che sia una donna e non un uomo a non stare al “proprio posto”. La violenza nei confronti delle donne – e di tutte le soggettività non conformi – viene perpetrata soprattutto attraverso un disciplinamento pervasivo da parte delle istituzioni, che cercano in questo modo di imporre delle identità normate. Ma questo non avviene necessariamente in ogni luogo: nella confederazione democratica del Rojava, la vita delle donne e della società tutta è molto diversa. In generale, si tratta di un sistema sociale migliore, che non lascia indietro nessuno, al contrario di questo che fa male a quasi tutte.