Intervista a Matteo Bergamini Direttore responsabile di exibart

Cosa succederà al mondo dell’arte nel momento in cui sarà passata l’emergenza Covid-19 e riapriranno gli studi degli Artisti, i Musei, le Fondazioni, gli spazi no-profit, le gallerie private, le fiere d’arte?

Ci sarà stato un cambiamento della fruizione dell’arte, soprattutto di quella contemporanea? Si riuscirà a sostenere anche gli Artisti visivi e performativi che creano la bellezza, ma che nonostante questo sono senza Albo professionale e senza Associazioni di categoria e con difficoltà troveranno accesso alle misure governative di sostentamento?

Gli artisti si ritroveranno ad affrontare senza strumenti un’economia globale malmessa che difficilmente li considererà degni di tutela, questione con cui anche le gallerie private, curatori e direttori di Musei dovranno fare i conti. Si può sperare, come è successo in passato, che dopo una mostruosa crisi segua una grande ripresa economica, ma le riprese economiche non avvengono da sole. Gli addetti ai lavori dell’arte stanno cercando una “cura” che oltre alla guarigione possa strutturare anticorpi?

Matteo Bergamini Direttore responsabile di exibart risponde ai quesiti di Alessio Ancillai

Ho abbastanza difficoltà a scrivere un pezzo su questa situazione: ci ho provato molte volte in questi giorni, per exibart, ma non ho mai trovato una sintesi che mi convincesse. Penso sia ancora molto presto per parlare di cosa potrà succedere a livello di percezione generale, di rapporto con la vita e con l’altro. Come fare giornalismo sarà conseguente, anche è ben diverso fare giornalismo dalla propria camera, o sul campo.

Sinceramente mi auguro che non passi l’abitudine all’isolamento, e nutro la vana speranza di una riflessione da parte dei quotidiani e dei media generalisti che negli ultimi tempi hanno operato uno splendido lavoro di diffusione di paura e ansia, una “pratica” che, in teoria, non appartiene alle regole deontologiche (astrazione pura!) della nostra professione, come ben esplicitato anche dall’Ordine dei giornalisti italiani.

L’offerta giornalistica di una testata legata all’arte contemporanea si muove con le stesse oscillazioni della sua materia di osservazione: se i musei sono chiusi e riprogrammano le loro attività online, è chiaro che dovremmo seguire questi nuovi corsi. Lo spazio pubblico è interdetto, ma quello virtuale è più vivo che mai. È l’unico che ci è concesso, oggi.

Per questo, come redazione di exibart, abbiamo deciso di essere – per quanto più possibile – vicini alla cittadinanza: regalando Pdf dei nostri numeri on-paper; parlando con addetti ai lavori di varia natura in dirette instagram tre volte alla settimana (un po’ di calibrazione, per evitare di essere gli ennesimi stalker nell’offerta ben più che bulimica e mentalmente e psicologicamente deconcentrante della rete); abbiamo anche indetto un questionario in forma completamente anonima per tutti i lavoratori dell’arte, per capire quali sono le problematiche legate a queste professioni tanto affascinanti quanto precarie, che prima o poi dovranno essere regolamentate precisamente dalle istituzioni.

È chiaro, e tutti lo sappiamo, che l’arte si presta a essere territorio del sommerso, ma è proprio tirando fuori la testa dalla palude che, forse, si può sperare di ottenere qualcosa.

Ora il problema è, più che dei singoli giornali, di un vero e proprio comparto che nella sua identità è completamente sbarrato, ovvero i musei, le gallerie, le fondazioni, le mostre, tutto quello che comprende una fruizione che per sua identità – più che per statuto – deve essere “dal vivo”, è interdetto.

Ancora una volta ci tengo a sottolineare che dobbiamo apprendere quanto più possibile da questa impossibilità non solo per poterci lavorare nel presente, ma soprattutto in futuro.

La dimensione della fruizione virtuale non scomparirà, anzi, ma un’altra speranza (sempre vana, credo) è che possa essere usata in maniera più intelligente.

Di fronte a un blocco temporale e spaziale come questo sarebbe utile immaginarsi di nuovo fuori, a contatto con la vita e le opere con la propria presenza fisica. Sarebbe utile iniziare a immaginare che, usciti dalla propria stanza, lo smartphone per scrivere 38 cazzate al minuto e postare foto brutte e inutili potrebbe essere lasciato a casa. Ovviamente non solo molto fiducioso: durante questa quarantena è definitivamente esploso TikTok, social network che fino a sei mesi fa era pressoché sconosciuto, e che permette di realizzare divertenti video dalla propria stanzetta – seguendo dei trend topic – con una serie di cut up ed “effetti speciali”. Vediamo se qualcuno riporrà le armi del rincoglionimento di massa quando si potrà tornare all’aria aperta.

Per concludere penso che vi sarà un prima e un dopo: ci ricorderemo di questi mesi molto a lungo. Dovremmo elaborare il lutto, l’ansia, la depressione che in queste settimane ci sono state gettate addosso.

E non si tratta di essere stolti, o di non vedere la realtà, si tratta solamente di modalità di comunicazione e di gestione del pensiero. Per quanto riguarda l’arte penso che per un po’ vedremo lavori “minimi” – che non vuol dire brutti, o sciatti – ma realizzati con poco, piccoli, “domestici” insomma. Ma mi auguro di vedere anche immensi progetti, sintomo della sconfitta della paura. Per questi ultimi, però, sono un po’ più scettico.

Lo dico anche pensando ai galleristi, impossibilitati a realizzare le loro mostre, a partecipare a fiere, a progetti, a incontrare artisti “come si faceva una volta”, ovvero non in skype o in FaceTime. Avranno un grande bisogno di vendere, ma immagino che saremo tutti più poveri – collezionisti inclusi – e passerà l’idea psicologica di potersi permettere esclusivamente qualcosa in formato cartolina, low price.

Dovremmo ripartire con il fiato sul collo, se ci atterremo alle “regole” che conoscevamo prima o, un’altra ipotesi che mi piace pensare, ma che non vedo particolarmente praticabile, dovremmo ripartire con più coscienza di chi siamo e da cosa siamo stati annientati in questo modo. Bisognerebbe studiare, prendersi la responsabilità – parafrasando un titolo di Teresa Macrì – di avere un pensiero discordante.

Ricostruire, gettare nuovi ponti, avere più rispetto del mondo, potrebbe essere facilissimo. O potremmo dimenticarlo appena voltato l’angolo.

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