Come spesso accade nel nostro Paese ogni volta che si trattano temi che hanno a che fare, anche solo in parte, con l’immigrazione, ciò che ne deriva è il montare di una polemica a tratti raccapricciante che paralizza la capacità delle istituzioni di prendere decisioni più che mai necessarie e urgenti.
È il caso della questione “regolarizzazione” di chi lavora nei campi tenendo in piedi una grossa fetta della nostra agricoltura e di chi si prende cura dei nostri anziani e delle nostre case reggendo quel pezzo di welfare familiare privato dove lo Stato non è in grado di arrivare.
Siamo già colpevolmente in ritardo su questo argomento che pure è tornato al centro del confronto politico unicamente a causa della pandemia che ci ha travolti e che ha almeno il lato positivo di costringerci a fare i conti con i vuoti e le storture normative che caratterizzano una parte fondamentale della forza lavoro su cui si regge la nostra economia.
Parliamo di circa 600mila lavoratori, tra cui molti braccianti che versano in condizioni di vera e propria schiavitù, alla mercé del caporalato che continua a proliferare da nord a sud, infischiandosene dell’emergenza sanitaria e dei protocolli rigidi di sicurezza che richiede.
È abbastanza paradossale, in questo senso, che la discussione tra le forze di governo (tralasciando per decenza le sparate fascio-leghiste) si sia incancrenita proprio su questa vicenda. Su una decisione che mentre siamo ancora nel pieno dell’emergenza sanitaria e in una fase decisiva per il contenimento dei contagi, consentirebbe il monitoraggio degli “invisibili” che oggi sfuggono ai controlli, alla quarantena, che non possono curarsi, mettendo così a rischio la propria salute e quella collettiva, che non rientrano nelle stime su cui ogni giorno cerchiamo di costruire una efficace strategia di ripartenza.
Lo dovremmo fare anche solo per questo, per una ragione di opportunità. Se non fosse che si tratta prima di tutto di una questione di civiltà. Ragione per cui non mi convince chi, anche nel governo, afferma che dovremmo operare questa regolarizzazione per il bisogno che abbiamo di manodopera aggiuntiva. Fa un po’ il paio con chi, qualche settimana fa, suggeriva di mandarci i percettori del reddito di cittadinanza a faticare nei campi per restituire un po’ di quello che “indebitamente” percepiscono dallo Stato.
Non è questo l’approccio culturale e politico che credo debba guidare le nostre decisioni.
Regolarizzare queste persone significherebbe da un lato smettere di alimentare le voragini delle povertà illegali dove regnano discriminazione e disumanizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori e dall’altro, nel caso di badanti e colf, riconoscere il sacrosanto diritto al sostentamento nel momento in cui le restrizioni nei movimenti hanno interrotto centinaia di collaborazioni, oltre a poterle riattivare nella legalità quando saranno ancor più necessarie di prima, con un carico di lavoro di cura che nel frattempo è aumentato e sta gravando interamente sulle spalle delle donne, generando ulteriore ingiustizia e disparità.
È difficile giustificare le remore del M5s che della legalità ha sempre fatto una bandiera e ora nel tentativo di non infastidire un pezzo di elettorato si barrica dietro a posizioni indifendibili che minano l’unità e la credibilità di questa maggioranza.
Abbiamo il dovere di arrivare ad una soluzione che restituisca al Paese una regolarizzazione efficace e strutturale di questi lavoratori. Soluzioni al ribasso, come la concessione di un mese di permesso, avrebbero tratti ancor più discriminatori e insopportabili. Adesso serve il coraggio di fare delle scelte. Quelle giuste.
* Francesco Laforgia è senatore Leu e coordinatore del movimento politico èViva