Una ragazza, con generosità e preparazione, dopo essersi laureata come mediatrice linguistica per la sicurezza e la difesa sociale (con una tesi sulla tratta degli esseri umani) nel 2018 ha deciso di andare con una Onlus a Chakama, in Kenya, per aiutare i bambini dei villaggi.

Con l’intento non solo di occuparsi della soddisfazione dei loro bisogni primari ma di sviluppare progetti di socializzazione, gioco, per rispondere alle loro esigenze di crescita e di formazione. Quella giovane donna di 23 anni e preparata cooperante si chiama Silvia Romano. Dopo 18 lunghi e durissimi mesi in cui è stata in balia di rapitori fondamentalisti appartenenti al gruppo somalo al-Shabāb è stata liberata e il 10 maggio è tornata a casa a Milano, accolta dall’abbraccio di amici, parenti,  vicini e assediata da giornalisti, ma anche da sciagurati haters online.

Con grande vitalità e resistenza, durante la prigionia ha cercato il modo per non soccombere come la Sherazade delle Mille e una notte che attraverso la narrazione cercava un modo per sfuggire alla pazzia omicida del Re.

L’unico mezzo era forse quello di chiedere di leggere il Corano, cercando di imparare l’arabo. Silvia dice di essersi convertita spontaneamente all’Islam. E questa sua dichiarazione ha scatenato la ferocia di fondamentalisti cristiani che hanno scritto e pronunciato parole irripetibili, di una violenza inaudita. Ma ha suscitato anche lo scandalo di razionalisti in doppio petto, che l’hanno additata come «ingrata», accusandola di «essersela andata a cercare». Del resto, si sa, i tre monoteismi hanno sempre oppresso e negato l’identità delle donne, in questo andando perfettamente d’accordo con i maestri del Logos.

Il rumore assordante degli insulti - analoghi a quelli che avevano accompagnato la liberazione delle cooperanti Simona Torretta e Simona Parri (rapite a Bagdad nel 2004), e che più di recente hanno accompagnato l’ingiusto arresto della capitana Carola Rackete - non riesce a toglierci la gioia della liberazione di Silvia Romano.

Non riesce per fortuna a farci diventare insensibili a e a farci perdere il senso profondo di gesti come quelli di molti giovani che oggi, rifiutando il cinismo e la logica dello sfruttamento, decidono di impegnarsi per la costruzione di una società più giusta e di un futuro migliore per tutti noi. Silvia Romano è fra questi.

Conoscevamo già il suo impegno e il suo sorriso. Sapevamo quale senso di giustizia animasse il suo lavoro quotidiano. Sapevamo anche che pochi giorni prima del suo rapimento si era recata alla stazione di polizia di Chakama per difendere alcuni bambini da molestie sessuali, come ha scritto Giulio Cavalli su Left.

Con gli attivisti di Amnesty international e di “Un Ponte per” non abbiamo mai smesso di sollecitare le istituzioni e, pur rispettando il riserbo necessario alle indagini, ci siamo adoperati perché non si spegnessero i riflettori sul suo caso. Per questo le abbiamo dedicato la storia di copertina il 29 novembre 2019, quando - passato ormai l’anniversario del rapimento e il suo compleanno - i media mainstream (che ora morbosamente indagano sulle sue scelte private e intime) non le riservavano più nemmeno un trafiletto. Avevamo fatto tesoro delle parole della collega Giuliana Sgrena che, avendo vissuto sulla propria pelle lo choc di un analogo rapimento, ci aveva raccontato quanto fosse stato importante per la sua liberazione che non si fosse allentata l’attenzione pubblica sul suo caso. «Non potrò mai dimenticare che devo la vita a Nicola Calipari e non basta una vita per elaborare questo trauma», scrive oggi Sgrena su Il Manifesto. Una vicenda drammatica, quella di Calipari, ucciso da “fuoco amico americano”.

Ora, ricordandolo, insieme a Baldoni, Arrigoni e tanti altri cooperanti e colleghi giornalisti che hanno pagato un prezzo altissimo per il loro impegno, salutiamo il ritorno di Silvia Romano ringraziando chi come lei si spende ogni giorno per un mondo più giusto. Non accettiamo la logica spietata di governanti, politici e “imprenditori” che in nome del profitto se ne fregano delle persone. In qualunque parte del mondo accada. Nell’Africa sfruttata e rapinata di risorse da parte di potenze occidentali, dove crescono gruppi fondamentalisti che come al-Shabāb fingono di aiutare i più poveri approfittando di indigenza e ignoranza. Ma anche qui da noi, nella Lombardia leghista che guarda alla produttività più che alla salute dei cittadini, come denunciamo con una serie di articolate inchieste in questa storia di copertina, mentre associazioni impegnate nel sociale e in difesa della Sanità pubblica chiedono il commissariamento della Regione.

Come scriveva Vik: Restiamo umani e non smettiamo di lottare.

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L'editoriale è tratto da Left in edicola dal 15 maggio
Leggilo subito online o con la nostra App [su_button url="https://left.it/prodotto/left-20-2020-15-maggio/" target="blank" background="#ec0e0e" size="7"]SCARICA LA COPIA DIGITALE[/su_button]

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Una ragazza, con generosità e preparazione, dopo essersi laureata come mediatrice linguistica per la sicurezza e la difesa sociale (con una tesi sulla tratta degli esseri umani) nel 2018 ha deciso di andare con una Onlus a Chakama, in Kenya, per aiutare i bambini dei villaggi.

Con l’intento non solo di occuparsi della soddisfazione dei loro bisogni primari ma di sviluppare progetti di socializzazione, gioco, per rispondere alle loro esigenze di crescita e di formazione. Quella giovane donna di 23 anni e preparata cooperante si chiama Silvia Romano. Dopo 18 lunghi e durissimi mesi in cui è stata in balia di rapitori fondamentalisti appartenenti al gruppo somalo al-Shabāb è stata liberata e il 10 maggio è tornata a casa a Milano, accolta dall’abbraccio di amici, parenti,  vicini e assediata da giornalisti, ma anche da sciagurati haters online.

Con grande vitalità e resistenza, durante la prigionia ha cercato il modo per non soccombere come la Sherazade delle Mille e una notte che attraverso la narrazione cercava un modo per sfuggire alla pazzia omicida del Re.

L’unico mezzo era forse quello di chiedere di leggere il Corano, cercando di imparare l’arabo. Silvia dice di essersi convertita spontaneamente all’Islam. E questa sua dichiarazione ha scatenato la ferocia di fondamentalisti cristiani che hanno scritto e pronunciato parole irripetibili, di una violenza inaudita. Ma ha suscitato anche lo scandalo di razionalisti in doppio petto, che l’hanno additata come «ingrata», accusandola di «essersela andata a cercare». Del resto, si sa, i tre monoteismi hanno sempre oppresso e negato l’identità delle donne, in questo andando perfettamente d’accordo con i maestri del Logos.

Il rumore assordante degli insulti – analoghi a quelli che avevano accompagnato la liberazione delle cooperanti Simona Torretta e Simona Parri (rapite a Bagdad nel 2004), e che più di recente hanno accompagnato l’ingiusto arresto della capitana Carola Rackete – non riesce a toglierci la gioia della liberazione di Silvia Romano.

Non riesce per fortuna a farci diventare insensibili a e a farci perdere il senso profondo di gesti come quelli di molti giovani che oggi, rifiutando il cinismo e la logica dello sfruttamento, decidono di impegnarsi per la costruzione di una società più giusta e di un futuro migliore per tutti noi. Silvia Romano è fra questi.

Conoscevamo già il suo impegno e il suo sorriso. Sapevamo quale senso di giustizia animasse il suo lavoro quotidiano. Sapevamo anche che pochi giorni prima del suo rapimento si era recata alla stazione di polizia di Chakama per difendere alcuni bambini da molestie sessuali, come ha scritto Giulio Cavalli su Left.

Con gli attivisti di Amnesty international e di “Un Ponte per” non abbiamo mai smesso di sollecitare le istituzioni e, pur rispettando il riserbo necessario alle indagini, ci siamo adoperati perché non si spegnessero i riflettori sul suo caso. Per questo le abbiamo dedicato la storia di copertina il 29 novembre 2019, quando – passato ormai l’anniversario del rapimento e il suo compleanno – i media mainstream (che ora morbosamente indagano sulle sue scelte private e intime) non le riservavano più nemmeno un trafiletto. Avevamo fatto tesoro delle parole della collega Giuliana Sgrena che, avendo vissuto sulla propria pelle lo choc di un analogo rapimento, ci aveva raccontato quanto fosse stato importante per la sua liberazione che non si fosse allentata l’attenzione pubblica sul suo caso. «Non potrò mai dimenticare che devo la vita a Nicola Calipari e non basta una vita per elaborare questo trauma», scrive oggi Sgrena su Il Manifesto. Una vicenda drammatica, quella di Calipari, ucciso da “fuoco amico americano”.

Ora, ricordandolo, insieme a Baldoni, Arrigoni e tanti altri cooperanti e colleghi giornalisti che hanno pagato un prezzo altissimo per il loro impegno, salutiamo il ritorno di Silvia Romano ringraziando chi come lei si spende ogni giorno per un mondo più giusto. Non accettiamo la logica spietata di governanti, politici e “imprenditori” che in nome del profitto se ne fregano delle persone. In qualunque parte del mondo accada. Nell’Africa sfruttata e rapinata di risorse da parte di potenze occidentali, dove crescono gruppi fondamentalisti che come al-Shabāb fingono di aiutare i più poveri approfittando di indigenza e ignoranza. Ma anche qui da noi, nella Lombardia leghista che guarda alla produttività più che alla salute dei cittadini, come denunciamo con una serie di articolate inchieste in questa storia di copertina, mentre associazioni impegnate nel sociale e in difesa della Sanità pubblica chiedono il commissariamento della Regione.

Come scriveva Vik: Restiamo umani e non smettiamo di lottare.

L’editoriale è tratto da Left in edicola dal 15 maggio

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SOMMARIO

Direttore responsabile di Left. Ho lavorato in giornali di diverso orientamento, da Liberazione a La Nazione, scrivendo di letteratura e arte. Nella redazione di Avvenimenti dal 2002 e dal 2006 a Left occupandomi di cultura e scienza, prima come caposervizio, poi come caporedattore.