A Bologna è nato un progetto di tipo mutualistico con un’alleanza che va dal mondo del volontariato alle cooperative, passando per l’associazionismo, i commercianti e i centri sociali

È una mattina di luglio del 2018, Bologna è avvolta da una bolla di calore afoso e umido, come sempre in estate. Tommaso Falchi si sveglia presto quella mattina; toscano, bolognese d’adozione “per amore”, racconta, da settimane è impegnato in una vertenza per chiedere migliori condizioni di lavoro all’azienda per cui, da quattro anni, fa consegne a domicilio in furgone. Ha un contratto a tempo indeterminato, non è un precario, ma un lavoratore a “pieno titolo”. Almeno così crede. Prima ancora di scendere dal letto per mettere su il caffè, ancora assonnato, accende il telefono. «Ho trovato un’email con sole tre righe, ero stato licenziato per lo sciopero che avevo fatto qualche giorno prima».

Da quella mattina di luglio molte cose sono cambiate per Tommaso: «Avevo una bici e già facevo consegne per arrotondare, ero nel gruppo che ha messo su la Riders Union, il sindacato dei ciclo-fattorini. Mi sono messo a fare il rider per le piattaforme a tempo pieno». Proprio in quel periodo il tema rider attira l’attenzione a livello nazionale. Nel 2018, infatti, sempre a Bologna, nasce la “Carta dei diritti fondamentali dei lavoratori digitali nel contesto urbano”, un documento nato su impulso della Riders Union, costituitasi l’anno prima, e sostenuto con forza dal Comune. «Con quel documento abbiamo fissato punti imprescindibili: innanzitutto non più cottimo, ma una paga oraria. Poi l’assicurazione, le indennità maltempo, i festivi e, naturalmente, i diritti sindacali». Insomma, un cambio di passo che condiziona il dibattito nazionale anche se, ad oggi, la Carta è stata firmata da due sole piattaforme.

«Per la sua storia e per il lavoro che abbiamo fatto in questi anni, Bologna rappresenta un terreno fertile di sperimentazione, un laboratorio in cui stiamo dando forza alle persone per affrontare i conflitti in carne viva dei nostri tempi, ispirandoci ai principi cooperativi e mutualistici». A parlare è Matteo Lepore, assessore all’Immaginazione civica, che racconta la sua idea di Bologna e il suo modo diverso di essere città nel mondo globale; sotto la foto del profilo Whatsapp di Lepore c’è scritto “creare è resistere”.

Oggi la sua città vuole creare e resistere, trasformando i rider da lavoratori sfruttati in servizio pubblico. Per farlo è nata un’alleanza che va dal mondo del volontariato alle cooperative, passando per l’associazionismo, i commercianti e centri sociali: con il sostegno delle istituzioni comunali, il 29 aprile, si tiene un’assemblea pubblica online per promuovere una piattaforma etica di consegne alternativa ai colossi del web. Grazie ad un’app che sarà messa a punto con la collaborazione di Legacoop e Cotabo, la federazione dei tassisti, la piattaforma potrà effettuare consegne, ma anche servizi di pubblica utilità come, ad esempio, la distribuzione di mascherine.

Ripercorrendo le tappe del percorso, Lepore dice che «Bologna ha l’ambizione di dimostrare che un’alternativa etica all’economia dei giganti del web è possibile. Volevano farci credere che con gli algoritmi fosse saltata l’intermediazione sociale, ma noi conosciamo il valore della comunità, non solo quello aritmetico del profitto: abbiamo messo insieme 700 negozi, soprattutto di quartiere, lavoriamo per la crescita accompagnata dalla coesione sociale perché solo così il valore che si sprigiona viene redistribuito e rimane sul territorio, arricchendolo. Avere una comunità capace di essere attiva e di creare valore è un processo che ha a che fare con la democrazia che non può limitarsi solo al voto, ma deve diventare organizzazione in grado di offrire alle persone capacità di contare e partecipare».

Proprio la crisi scatenata dal Covid-19 ha riportato all’attenzione di tutti l’importanza dei beni comuni: sanità, investimenti, sostegno economico. Il processo di dialogo e collaborazione tra i rider e la città subisce un’accelerazione: sono i giorni della quarantena, dei canti sui balconi, della paura. L’Emilia-Romagna è una regione colpita duramente. Tommaso Falchi, che nel frattempo lavora in un bar, si ritrova di nuovo disoccupato dopo il lockdown: «Il bar ha chiuso da due mesi e io mi sono ributtato nelle consegne». Durante la pandemia il tema delivery acquista una nuova centralità: «Non è possibile che noi siamo considerati servizio pubblico indispensabile, ci definiscono addirittura eroi, e poi veniamo pagati a cottimo», dice Tommaso. «Come Fondazione innovazione urbana già lavoravamo alla realizzazione di progetti di tipo mutualistico di accelerazione del cooperativismo di piattaforma» dice Raffaele Laudani, presidente della Fiu. La corsa alla solidarietà durante il lockdown è significativa, specchio di un tessuto sociale forte; «Abbiamo convocato un’assemblea pubblica virtuale con le realtà che si sono mosse attorno al tema consegne a domicilio come la velostazione Dynamo e alle diverse esperienze che nell’emergenza hanno contribuito all’attività di volontariato come la rete Don’t Panic, Idee in Movimento, Ya Basta».

L’assemblea parla ad una galassia di realtà, attori di una proposta e di un’alleanza tutta politica che «vuole recuperare una relazione tra cittadini garantendo lavoro degno grazie a un modello in cui il settore pubblico fa il driver e crea uno spazio inedito tutto da scrivere» dice Michele D’Alena che ha seguito il progetto con la Fiu. L’idea, infatti, è di far nascere non un’azienda municipalizzata, ma un modello in cui il pubblico indirizza, facilita e coordina l’organizzazione dal basso di una forma etica di mutualismo incentrata sugli obiettivi e i valori della sostenibilità, del rispetto del lavoro degno e del bene comune. Dietro c’è un’idea di città che rende la rete di consegne a domicilio “infrastruttura della città per la città”: chi aderisce al progetto aderisce a un prototipo di immaginazione urbana.