Kenneth Reams è stato condannato a morte per rapina nel 1993 quando aveva 18 anni. La sentenza arrivò dopo un processo che presentava numerose incongruenze. Da allora non smette di lottare contro le storture di un sistema carcerario e punitivo profondamente razzista

«Negli ultimi 25 anni, ho sopportato la vita in isolamento, con lo stress mentale ed emotivo di dover affrontare la morte. Nonostante ciò, e contro ogni previsione, sono riuscito a riabilitarmi e a crescere. Ho fatto male da ragazzo, non sono innocente. Ma non ho mai ucciso». Sono le prime righe della lettera aperta di Kenneth Reams detenuto nel braccio della morte di una prigione nordamericana dall’età di 18 anni. È stato il più giovane detenuto in attesa di pena capitale in Arkansas.

Quella che Kenneth e i suoi amici mi hanno raccontato al telefono è una storia di speranza e resilienza, ma anche un esempio delle contraddizioni che affliggono la società americana e il suo sistema carcerario. È una storia che ci pone degli interrogativi, mettendoci di fronte all’inaccettabilità della perdita forzata di una vita umana, che sia per mano di un comune criminale o da parte dello Stato nel suo tentativo di affermarsi e legittimarsi. È una storia che ci costringe anche a riflettere sulla differenza fra pena e vendetta, e sulla nostra capacità di accettare la riabilitazione di un condannato.

Il 5 maggio 1993, a Pine Bluff (Arkansas), piccola cittadina considerata tra le più pericolose degli Stati Uniti, Kenneth, insieme al suo amico Alford, decide di compire una rapina. La loro giovane vita fino a quel giorno era stata definita dalla povertà, dalla violenza e dalla mancanza totale di opportunità. I soldi rubati dovevano servire a comprare il mantello e il tocco per la cerimonia del diploma. Ma gli eventi prendono una strada diversa, Alford spara accidentalmente un colpo ed è così che un furto da 50 dollari si trasforma in un omicidio. Alford Goodwin, autore materiale dell’assassinio, ha accettato un accordo con la procura, si è dichiarato colpevole ed è stato condannato all’ergastolo. Kenneth Reams, in macchina al momento dello sparo, ha scelto di andare a processo ed è stato condannato alla pena di morte tramite iniezione letale. L’iter giudiziario presentava fin da subito grosse lacune. L’avvocato d’ufficio che seguiva centinaia di casi, tra cui altre cinque sentenze capitali, non ha chiamato alla sbarra né gli esperti né i testimoni chiave. La giuria era composta da undici bianchi su dodici, dopo che tre afroamericani furono ricusati senza che la procura si sia dovuta giustificare, come lo prevede il sistema americano di selezione del collegio di giudici popolari. Nel novembre 2018, infine, è stata revocata la pena di morte perché il caso è stato dichiarato incostituzionale.

La cella dove Kenneth è stato rinchiuso per tutta la sua vita da adulto è una scatola di cemento buia, grande come un posteggio auto, composta da un gabinetto, da una doccia che non riesce a regolare e da un materasso appoggiato su una branda di cemento. Gli è concesso uscire un’ora al giorno all’aria aperta per fare esercizio in uno spazio ancora più angusto della sua cella. Racconta che molti detenuti rifiutano questo loro “diritto” poiché li fa sentire come animali nella gabbia di uno zoo. Non sono permessi contatti umani, se non per l’assistenza sanitaria e le visite. La colazione e il pranzo vengono serviti alle 2 di notte e alle 9 del mattino. La maggior parte dei detenuti, per colpa di questo trattamento disumanizzante e di questo dover “vivere” nell’attesa dell’esecuzione (un quarto dei reclusi nel braccio della morte muore di cause naturali dopo decenni di incarcerazione), cedono psicologicamente, spegnendosi lentamente o dando segni di squilibrio mentale. La sua voce profonda e quieta contrasta con gli echi della prigione. Abbiamo venti minuti cronometrati prima che la sua unica telefonata settimanale si esaurisca.

Puoi raccontarci la quotidianità fra le mura di un carcere di massima sicurezza statunitense?
I miei giorni scorrono come scorre la mia mente. Non c’è un giorno che assomigli all’altro. Ho delle attività quotidiane come l’esercizio fisico, la meditazione, provo anche a leggere il più possibile. Tutte quante servono alla mia crescita personale e spirituale. Certi giorni creo arte, altri scrivo poesie, altri ancora rispondo ad un’intervista come oggi. Vedi, ci sono tanti elementi, ma non ho nessun tipo di routine da portare avanti, come fanno di consueto molte persone nella società civile. Sai, ti alzi ad un’ora precisa ogni mattina, vai al lavoro, torni dal lavoro, dedichi del tempo alla tua famiglia e ai tuoi bambini. La mia vita in isolamento non me lo permette. A volte mi sveglio alle tre del mattino, altre vado a letto alle due.

La tua passione per l’arte è nata fra le mura della cella. Negli ultimi anni, hai realizzato più di cinquanta opere, fra poesie, installazioni, sculture, disegni e pitture. Chi si avvicina alle tue creazioni non può che rimanere colpito dalla loro forza denunciatrice. Mi sovviene l’immagine del tuo dipinto dove le strisce rosse della bandiera americana finiscono con dei cappi ad uno dei quali è stato impiccato un afroamericano e il tuo modellino di sedia elettrica realizzato interamente con bastoncini di gelato. Affermi che la tua arte non riguarda te stesso, ma temi più ampi come la pena di morte, la disumanità della vita in isolamento, i fallimenti del sistema di giustizia penale americano, e le discriminazioni razziali. Qual è il contributo dell’arte alla tua capacità di resilienza?
La mia arte è totalmente centrata sulla libertà. E per libertà intendo che ho impugnato il pennello per sbloccare le porte della mia cella. Riguarda tutte le forme di libertà. La libertà di creare. La libertà di pensare. La libertà di essere semplicemente in movimento. La mia arte non ha una fonte di inspirazione, la mia arte è libertà pura.

L’idea secondo la quale negli Usa le ingiustizie giudiziarie siano strettamente legate alla questione razziale percorre la quasi totalità delle tue opere. Approfondiresti questo concetto per noi.
Negli Stati Uniti, la commedia della morte si è sempre incentrata attorno a due elementi chiave: la vendetta e il razzismo. Questo vale fin dall’inizio della storia degli Stati Uniti e resta valido tutt’ora. Perché il mio è solo uno dei tanti casi di ingiustizia giudiziaria che esistono in questo Paese. Se guardi la composizione razziale della popolazione americana, vedrai che su un totale di 320 milioni di abitanti, ci sono circa il 30% di afroamericani. Però se osservi le statistiche, ti rendi conto che solo un maschio bianco su 17 può aspettarsi di andare in prigione durante la sua vita, a fronte di un afroamericano su tre (come emerge dai dati del Bureau of justice statistics – Bjs – del 2013) Se pensi che questo non sia razzismo o sei ingenuo o sei cieco. Questo si ripercuote sull’intera società. Se sottrai una fetta così importante della popolazione, in prevalenza maschile, di una comunità, ad un certo punto crei degli squilibri enormi, una vera voragine.

Assieme alla piaga del razzismo, le carceri americane si stanno confrontando con il problema del sovraffollamento. Un Paese che rappresenta solo il cinque per cento della popolazione globale, ma che conta quasi un quarto dei detenuti di tutto il mondo, appare chiaro che abbia un sistema giudiziario fondato sulla carcerazione. Cosa si evince dall’interno?
Ho passato più della metà della mia vita in isolamento, intrappolato nel sistema giudiziario. Ho avuto l’opportunità di osservarlo attentamente. Si presume che il carcere serva a punire e a riabilitare. Però, qui, non è quello che io ho visto, non è quello che io ho capito, non è quello che io ho imparato. Ciò che ho constatato io, è che è tutto una mera questione di soldi. Di quanti guadagni loro sono capaci di fare. E quando dico “loro”, intendo le corporazioni. Ecco cosa ho imparato durante tutti questi anni. Ciò che stanno facendo non viene regolato e così queste corporazioni sono libere di fare pressioni sui politici per promulgare leggi che permettono di pronunciare sentenze ingiuste, contro persone che vengono ingiustamente rinchiuse, e che devono ingiustamente trascorrere tempo in carcere.

In che modo le corporazioni che evochi lucrano sulla pelle dei carcerati?
Per le corporazioni non c’è un unico modo per fare soldi: più c’è gente incarcerata, più ci sono guadagni. Quando sono arrivato in carcere, nel 1993, era il periodo di attuazione della legge californiana dei Three strikes: commetti tre reati e veni incarcerato per il resto della tua vita. Questo è nient’altro che un modo di rinchiudere più facilmente la gente per fare ancora più soldi. Così le lobby si arricchiscono. Lo fanno in modi diversi. Per esempio, ci sono delle aziende che sono specializzate nella produzione di scarpe per i carcerati: più gente è rinchiusa e più scarpe possono vendere. Stessa cosa per le compagnie telefoniche che fanno soldi con le chiamate dei carcerati ai loro familiari: più gente è rinchiusa e più ci sono chiamate da fatturare. E poi i prezzi non hanno niente a che vedere con quelli praticati nella società civile. Fuori una chiamata di quindici minuti non costa venti dollari, qui in carcere si. Fuori una caramella non costa un dollaro e cinquanta centesimi, qui in carcere si. Per farti un esempio, circa un anno fa, ho realizzato un opera d’arte riciclando imballaggi che avevo accumulato. Confezioni di caramelle, di merendine e buste di patatine. Le ho assemblate tutte assieme per parlare del come queste compagnie esterne fanno soldi sugli indigenti (due terzi della popolazione carceraria americana vive sotto la soglia di povertà, dati Bjs 2013). È un business colossale e non si ferma qui. Prendi il caso dei giubbotti antiproiettile. Non c’è bisogno che le guardie ne siano dotate: non si spara mai a nessuno in carcere. Ciò nonostante, le compagnie sono riuscite a stipulare dei contratti con il sistema penitenziario. Ecco un ennesimo modo in cui fanno soldi. Ed è così che il sistema funziona. C’è un’organizzazione che si chiama Alec (una lobby ultraconservatrice evangelica accusata in più occasioni di suprematismo bianco), è una corporazione che raggruppa diverse aziende che fanno pressioni in modo da incoraggiare la promulgazione di leggi, così da mantenere la gente in carcere e quindi poter fare i maggiori profitti possibili. Così dissezionano la società, ancora e ancora, sempre di più.

Due anni fa, un docufilm che narra la tua storia – Free man, di Anne-Frédérique Widmann – è stato presentato in numerosi festival di cinema per i diritti umani, le tue opere sono state esposte in diverse mostre in giro per l’Europa e gli Stati Uniti, la tua campagna “Who Decide?” contribuisce a sensibilizzare l’opinione pubblica statunitense contro la pena di morte, e il tuo comitato di sostegno “Free Kenneth” moltiplica le iniziative a favore della tua liberazione, quali sono i prossimi passi?
Personalmente, continuerò a sforzarmi ad evolvere ogni giorno per elevare la mia individualità, provando a capire i grandi principi della vita, come la pace, la felicità, l’amore e provando a capire come io mi relaziono al mondo. È un percorso quotidiano per diventare una persona migliore. Riguardo la battaglia giudiziaria, la prossima tappa consiste nel lottare per convincere l’Arkansas ad aprire gli occhi. È un caso molto complicato in cui non si capisce esattamente cosa sia necessario per spingere lo Stato a porre attenzione sulla mia vicenda. Però è allo stesso tempo un caso molto semplice perché è chiaro che non ho ucciso nessuno ed è altrettanto chiaro che ho subito un’ingiustizia, ma che per una ragione o un’altra, il sistema non vuole fare la cosa giusta. È il motivo principale per il quale faccio questa intervista, provare ad attirare l’attenzione sull’ingiustizia del mio caso.

L’intervista è stata pubblicata su Left del 13 marzo 2020

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