Così si firmava Plautilla Bricci rivendicando un’identità del tutto inedita nel Seicento di Caravaggio, Bernini e Borromini. Il romanzo di Melania Mazzucco ci porta nel suo mondo di donna e di poliedrica artista che è stata a lungo dimenticata

È un potente affresco di storia del Seicento, ma è soprattutto un ritratto profondo di una donna, Plautilla Briccia (1616-1705) architettrice, come lei stessa si firmava. Dare un nome alle cose. Avere la consapevolezza e il coraggio di rivendicare una propria identità, che era del tutto inedita per quel tempo. Il romanzo L’architettrice (Einaudi) di Melania Mazzucco ci fa scoprire l’arte ma anche il complesso mondo interiore di Plautilla Bricci (1616-1705). Nata nei quartieri poveri di Roma, riuscì a trovare una propria realizzazione attraverso l’arte. Fu lei a progettare quella Villa del Vascello che nell’Ottocento divenne il presidio della “meglio gioventù” che da tutta Europa approdò nella città papalina per dare vita al sogno di una Repubblica laica. Alla scrittrice che le ha dedicato una splendida narrazione “per immagini” abbiamo rivolto qualche domanda per capire meglio chi fosse e perché la sua memoria sia “scivolata via” nonostante l’originalità della sua opera.

Melania, perché Plautilla è stata, per lunghi secoli, così inesorabilmente cancellata dalla storia?Intanto perché la sua creazione architettonica più importante, Villa Benedetta sul Gianicolo, perse presto il collegamento con lei. Lo stesso abate Elpidio Benedetti, che gliela aveva commissionata, quando pubblicò (sotto pseudonimo) la guida dell’edificio ridimensionava il contributo di Plautilla, attribuendole l’idea ma non la realizzazione. Fu lui ad aggiungere all’opera il nome del fratello, Basilio Briccio, che cominciò a stendersi su di lei come un’ombra.

Ma questa è soltanto una parte della verità?
Il fatto è che lei si era legata comunque a un partito “perdente” in città, perché Benedetti, che era l’agente di Mazzarino, rappresentava una fazione invisa al papato dominante. E non era nobile né apparteneva a una famiglia potente. Ma più ancora pesò una questione di genere. Plautilla era stata eccezionale e non doveva creare esempio. Elpidio stesso, che si era spinto molto avanti nel commissionarle l’opera, poi cercò di fare un passo indietro. Insomma, il suo essere donna, in più legata ai committenti sbagliati, certamente non ha aiutato. Le sue opere di pittura recentemente ritrovate mostrano una qualità straordinaria. E però questo è anche il destino di tante artiste, di essere considerate al più emule di qualcuno. Non viene riconosciuto loro di essere portatrici di una originalità artistica. E ciò ha contribuito al loro oblio.

Ne La nascita di san Giovanni Battista di Poggio Mirteto il suo talento è subito evidente. Con quella rappresentazione dell’anziana levatrice, che forse solo una donna poteva creare, come lei ha scritto. Colpisce anche la freschezza di sguardo sulle ancelle che sullo sfondo parlano intimamente fra loro.
Quel brano pittorico è talmente eccezionale che se fosse estrapolato da quello stendardo processionale ci farebbe pensare quasi a una pittura novecentesca, nella sua essenzialità, nella sua purezza. Plautilla arrivò tardi a questa padronanza stilistica. Quell’opera fu realizzata nel 1675, quando era già una pittrice anziana (aveva quasi sessant’anni). Ha creato in età avanzata le sue opere pittoriche più importanti (per dimensioni, invenzione, collocazione, tecnica). E forse c’è anche un’altra ragione per l’oblio che la colpì: il fatto che fosse sola. Plautilla non ha avuto nessuno che ha difeso la sua memoria.

Ha pagato la scelta di non avere figli?

Studiando le biografie degli artisti mi sono resa conto che i materiali maggiori per la costruzione – talvolta l’invenzione – della loro memoria vengono da figli, eredi e allievi. Pensiamo per esempio a Bernini: il figlio curò la riscrittura mitizzante della figura del padre, per orientare per sempre la lettura della sua avventura artistica. Penso anche a Tintoretto e a come i suoi figli contribuirono in maniera determinante alla creazione della sua leggenda. Plautilla non aveva nessuno. E questo ha contato. Credo che ci debba far riflettere sulla situazione di molte donne che hanno dovuto scegliere fra l’arte e il matrimonio e la famiglia.

Le donne nel paleolitico dettero un grande contributo all’arte. Oggi ne abbiamo prove certe. Ma poi lungamente sono sparite dalla ribalta. Bisognerà attendere millenni per trovare tracce adeguatamente documentate di artiste. Forse anche perché la storia dell’arte è stata scritta perlopiù da uomini?

In ogni epoca ci sono state donne che sono riuscite a creare. E anche a farsi rispettare e apprezzare dai contemporanei. Ma poi non sono rimaste nella memoria. Se non in maniera indiretta. E a volte per le ragioni sbagliate. Penso per esempio al Vasari che biografa pochissime artiste e spesso tramanda aneddoti maliziosi o fuorvianti sulla loro vita privata. Ma pensiamo anche ad Artemisia Gentileschi, nota ai contemporanei e al grande pubblico più per la sua vicenda biografica, per la violenza subita e per il processo, che per la straordinaria qualità della sua pittura, che pure nel Novecento è stata giustamente riscoperta.

È accaduto qualcosa di analogo anche a Maria Tintoretto, che lei ha raccontato nel libro La lunga attesa dell’angelo?

Marietta era stata biografata quando aveva 28 anni. Era comunque considerata come una vera artista. Noi non sappiamo se meritatamente o meno, perché non conosciamo con certezza sue opere autografe. Sappiamo che aveva avuto inviti a corte per la sua arte. Che in Spagna poteva diventare la nuova Sofonisba Anguissola. Ma ad oggi non ci è arrivato niente di lei. Di Marietta, all’epoca, si parlava come di una Maestra del ritratto e capace di composizioni con molte figure. L’annoso e grandissimo problema della cultura occidentale, tuttora presente, è come riuscire a collocare le artiste nella storia del loro tempo e nella durata, sia che siano scrittrici, pittrici o musiciste. Plautilla apparteneva alla generazione successiva a quella di Artemisia e l’esperienza della Gentileschi, che aveva dovuto lasciare Roma e solo altrove, soprattutto a Napoli, aveva cominciato a crearsi un ruolo importante, non ha potuto generare nulla per lei e per le sue contemporanee. Ognuna di loro ha dovuto ricominciare da sola a combattere la propria battaglia nel segreto di esistenze marginali, a volte cancellate.

Benché vissute in epoche in luoghi diversi, tutte e tre – Marietta, Artemisia e Plautilla – hanno avuto padri che hanno trasmesso loro competenze per farsi strada nell’arte ma in modo, al fondo, ambivalente. Come il Briccio, commediografo e artista che s’inventa la storia del quadro di Plautilla portato a termine dalla Madonna. Per assicurarle forse una committenza religiosa, ma costringendola a un destino di verginità?

Sono storie antitetiche ma anche molto simili. Le figlie d’arte avevano il grande vantaggio di poter contare su un’educazione artistica. Per una ragazza era impossibile, a meno che non fosse nata nobile e avesse potuto usufruire del denaro della famiglia che le permetteva di avere lezioni private di grandi maestri. Nei fatti solo le figlie dei pittori sono riuscite ad avere una formazione tecnica e professionale. Però il prezzo che hanno pagato è stato molto alto, perché sono stati i padri a determinarne il destino pubblico. La storia di Plautilla mi ha affascinato anche perché è sopravvissuta a suo padre, ha avuto una lunghissima vita e si è trovata un altro uomo con il quale percorrere una strada completamente diversa da quella scelta per lei e inventarsi un altro destino. Marietta resta per sempre la figlia del Tintoretto: noi la conosciamo così. Non è riuscita ad avere un’identità propria perché ha sacrificato la vita al padre e lui l’ha inglobata dentro di sé. Invece Plautilla dal padre Giovanni ha ricevuto il mestiere e la condanna/privilegio a una vita solitaria, segreta e casta: ma poi, essendogli sopravvissuta, è riuscita a diventare altro. Ho trovato interessante scrivere la sua storia anche per questo. Quando è morta, Plautilla non era più la figlia del Briccio; era se stessa, “la signora Plautilla architettrice”, e aveva avuto un’altra storia.

Nel disegno della Villa del Vascello firmato da Plautilla compaiono un uomo e una donna, come lei ha notato. Come legge questo affascinante particolare?

Per quanto ne so nei prospetti architettonici di allora non si collocavano delle persone come si fa oggi nei plastici urbanistici. Mi ha colpito che nel disegno della facciata principale della villa del Vascello Plautilla abbia pennellato con l’inchiostro un uomo e una donna. In fondo la villa era destinata a un abate che una donna non ce l’aveva. Mi è apparso come un modo per dire: ci sono anche io. Anche se non ci abiterò mai. Anche se questa villa non sarà mai mia, io l’ho fatta e in qualche modo ci sarò sempre.

Fa pensare che il rapporto fra uomo e donna possa essere creativo anche in altro modo, al di là di mettere al mondo dei figli?

Forse questo è l’aspetto migliore della loro relazione. Un rapporto fra due persone che, come ho scritto nel romanzo non era previsto nei comandamenti. Perché erano destinati a una vita che prevedeva per lui il celibato e per lei la verginità. Invece, nonostante tutto, fra loro si crea un’alleanza, un’amicizia, un supporto reciproco, un amore autentico che dura nel tempo e si può realizzare veramente, nella creazione di un’opera. Un fatto molto insolito anche nella storia della committenza artistica.

È forte la presenza viva della storia nel libro. L’architettrice ci fa entrare nel mondo di Plautilla, nel suo tempo. C’è il Seicento della Roma dei papi, di Caravaggio, Bernini, della peste e delle diseguaglianze sociali che la pandemia acuisce. Ma c’è anche il 1849 della Repubblica romana che vive il suo momento più drammatico e anche più alto proprio nella Villa del Vascello. Due storie che si intrecciano, quella di Plautilla e dei giovani insorti che indirettamente si incontrano? Due sogni di riscatto?

Per me è stato decisivo riscoprire che fosse stata Plautilla la creatrice, la costruttrice e l’architettrice della Villa del Vascello, che per i romani è un luogo “sacro”. Una buona parte delle famiglie popolari hanno mantenuto memoria di cosa era stata la Repubblica romana, di questo acerbo sogno di democrazia, venuto così anzitempo da essere stato poi rimosso dalla cultura ufficiale. Però la Villa aveva perso il legame con Plautilla. Quando nel 2003 sono stati riscoperti i documenti che le hanno restituito questa maternità artistica è come se in me le due scintille si fossero fuse in un’unica fiamma: due sogni straordinariamente in anticipo sul loro tempo, la cui perdita e cancellazione dalla memoria collettiva ha determinato conseguenze negative per la storia d’Italia, per la storia delle donne e del nostro Paese. Se solo si fosse sempre saputo che Plautilla era l’architettrice della Villa del Vascello e se il sogno della Repubblica romana fosse rimasto vivo, anche nella memoria scolastica per esempio, l’Italia avrebbe potuto avere un’altra storia. Nel momento in cui questa verità è stata riscoperta il romanzo è stato per me inevitabile. Ho voluto raccontare la costruzione di questa villa e la sua distruzione, perché in fondo rappresentano quasi due aspetti dello stesso sogno di uguaglianza e liberazione dall’oppressione.

Quale è stata l’originalità di Plautilla architetto? La verticalità, l’impatto scenografico e teatrale della Villa sono il segno del Barocco romano?

Credo che sia il frutto del tempo in cui ha vissuto. Nel corso della sua vita Roma ha cambiato letteralmente faccia. Quando ricostruivo i suoi spostamenti nella città mi rendevo conto di quante chiese e palazzi sorgevano via via nel centro storico, in via del Corso e dintorni, dove abitava lei, e poi a Borgo: cambiavano letteralmente ogni anno le strade, le piazze, rioni interi. Ogni volta che usciva di casa poteva vedere qualcosa di nuovo. Questo sentimento di costruzione e rinnovamento della città penso abbia contato moltissimo, generando anche la sua idea stessa di diventare architetto. Poi le esperienze opposte e per ragioni biografiche a lei vicine di Bernini e Borromini l’hanno certamente segnata. L’intuizione di costruire sulla roccia viva è stimolata dalla Fontana dei quattro fiumi di piazza Navona. Plautilla costruisce la villa lasciando la scogliera come basamento del suo vascello. Ha guardato a Bernini, ma per un certo uso dei materiali poveri rimanda invece ai lavori di Borromini e alla sua filosofia. Plautilla ha cercato di nutrirsi guardandosi intorno. Non avendo potuto avere una formazione pratica in cantiere ha tratto linfa dal cambiamento della città e lo ha ricreato, in modo anche un po’ anomalo, per esempio nelle proporzioni. La Villa era una sorta di grattacielo. Ha lavorato sulle ristrettezze. Non aveva molti soldi a disposizione, ha impiegato materiale povero, per esempio scegliendo di valorizzare lo stucco piuttosto che il marmo. E allo stesso tempo ha dovuto adattarsi al terreno, alla collina, all’orientamento che doveva dare alla nave e che ha sua volta ha generato la forma dell’edificio. Mi è piaciuta l’idea che abbia lavorato a partire dalle condizioni concrete, che il suo progetto non fosse astratto – un disegno immaginato nel chiuso del suo studio – ma legato alle possibilità e alla necessità vitale di realizzarlo e completarlo, con tutte le difficoltà che ciò ha comportato.

Questo ci riporta alla narrazione, ai primi capitoli del romanzo, quando Plautilla bambina, con il padre, vede una balena spiaggiata a Santa Severa. Ci riporta al rapporto con il mare. Quella Villa sembra quasi una ricreazione di quel vissuto?

Me lo sono chiesta quando tutti hanno cominciato a interpretare la sua villa come un vascello. Mi sono detta: ma Plautilla aveva mai visto un vascello? Avrà mai visto le navi, a parte quelle che arrivavano al porto di Ripa? Il Tevere era allora un fiume navigato, popolato di imbarcazioni. Ma da carico e da trasporto, non certo vascelli da guerra. Lei ha abitato a Trastevere, vicina al porto, ma anni dopo aver costruito la villa, e non ha mai viaggiato per mare. Quell’immagine poteva essere nata dalla visione dell’architettura fantasmagorica delle ossa delle balena, il cui ritrovamento nel 1624 ha un legame strettissimo con la famiglia Bricci. Suo padre teneva il fanone più piccolo sulla scrivania, è un episodio che racconta lui stesso. Da quanto sappiamo aveva uno studiolo modesto, e sul suo scrittoio dominava un oggetto stranissimo e quasi magico come questo dente misterioso…

Il vasto lavoro di documentazione che è alla base di questa sua opera letteraria è stato pubblicato online da Einaudi. Plautilla è un campo di ricerca che presenta continue sorprese? Penso anche al fatto che alcune importanti scoperte datano al 2003, quando è stato ritrovato il capitolato dei contratti.

Plautilla è ancora tutta da riscoprire. Ho cercato di mettere a disposizione tutti i materiali da me impiegati perché altri possano proseguire la ricerca. Ci sono delle opere menzionate in alcune carte inedite che ho trovato, di cui però non sappiamo nulla. Sono piste che gli storici dell’arte certamente possono percorrere. Quando ho cominciato a pensare di scrivere questo libro e a fare ricerche in archivio non era stato rinvenuto neppure quel documento del capitolato. Nell’ultimo decennio alcuni elementi del suo catalogo artistico hanno cominciato ad andare al loro posto. Importante è stato anche il ritrovamento del cartiglio con la storia della Madonna con Bambino nella Chiesa degli artisti di Santa Maria di Montesanto, grazie al restauro del 2016. Fino a quel momento quell’opera “miracolosa”, che era stata così determinante nella vita della pittrice, non le era più stata attribuita. Si era perduta completamente la memoria di quella storia. Lo stendardo di Poggio Mirteto di cui abbiamo parlato è stato ritrovato nel 2012. Ma penso anche alla lunetta del Sacro Cuore in Vaticano che giaceva nei depositi di San Giovanni in Laterano, finché non è stato finanziato il restauro – e anche lì è emersa la sua firma.

Sicuramente Plautilla ha dipinto altro?

Sì, probabilmente altre sue opere esistono ancora. Ho cercato a lungo di capire cosa ne fosse stato di quelle che ornavano la Villa. Già nel maggio del 1849, nel momento in cui i volontari si accamparono al Vascello, nessuno menzionava più i quadri e gli affreschi. Il che fa pensare che a quella data già fossero stati dispersi o si fossero deteriorati. Quella è forse la perdita più grande, perché la Villa era il suo capolavoro. E all’interno c’erano opere di Pietro da Cortona e di tanti altri artisti importanti del secondo Seicento. Questi temiamo siano perduti, ma altri quadri sicuramente si potranno trovare…

L’intervista prosegue su Left in edicola dal 29 maggio

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