Non ci sono più i bei tempi di una volta. Quelli in cui la destra neofascista marciava sfidando divieti prefettizi e promettendo mazzate ai compagni. Prendi quell’aprile di Milano. In rete, basta digitare “Giovedì nero”, che subito dopo il crac finanziario di Wall Street del 24 ottobre 1929, salta fuori il crac neofascista del 12 aprile 1973.
Quel giorno, a Milano, ci rimise la pelle il 22enne agente Antonio Marino. I feriti furono 35 (26 delle forze dell’ordine), 64 i fermi, 11 gli arresti. Fra gli oratori della manifestazione di estrema destra, oltre al condottiero neofascista Ciccio Franco, quello della rivolta del 1970 a Reggio Calabria dei Boia chi molla, anche il capelluto e mefistofelico segretario generale del Fronte della Gioventù, ossia il sempre esuberante Ignazio La Russa, figlio del senatore missino Antonino. All’epoca, colui che diventerà il ministro della Difesa del IV governo Berlusconi, fu perfino immortalato da Marco Bellocchio in un suo film (Sbatti il mostro in prima pagina) mentre aizzava la piazza contro il pericolo comunista.
Altri tempi. Tempi segnati dal furore del piombo e delle stragi. Oggi, per fortuna, le esibizioni delle destre radicali (si scrive così ma si legge neofasciste) si svolgono su una cifra macchiettistica. Oggi, la destra radicale (si scrive così ma si legge neofascista) incassa i permessi prefettizi. E in mancanza di forze dell’ordine o di compagni con cui fare a mazzate, lo fa da sé, in una sorta di orgia onanistica della violenza: battendosi cioè fra sé e sé. Per meglio dire: fra sé contro sé.
I Ragazzi d’Italia (si scrive così ma si legge neofascisti con sede a Brescia), ultras di fede calcistica (del Varese, dell’Inter, del Cesena e del Verona, della Lazio e della Roma) e Forza Nuova, si sono contrastati in una sorta di rivendicazione di primogenitura cesarista, con tanto di diritto o meno a parlare, come parlare, quando parlare. È successo infatti che l’annunciata adunata nera al Circo Massimo sia finita a schifìo, per dirla con Nino Manfredi.
Al comune grido di «Innalziamo il tricolore! Italia libera! Lotta per la giustizia sociale! Stiamo arrivando!» s’era organizzata l’ennesima marcetta romana, dopo quella del 2 giugno scorso col gotha della destra italica che aveva visto uniti (si per dire) Meloni, Salvini, Tajani. Nell’occasione, il papeetiano – in totale crisi d’astinenza da selfie – s’era finalmente sfogato, rigorosamente senza mascherina.
Esaltato da tutte quelle dimostrazioni d’affetto, per quegli slogan così commoventi, l’ex titolare dell’Interno s’era poi sentito titolato ad andare a Napoli a deporre un fiore e a offrire una di quelle preci che non risparmia nemmeno agli studi televisivi, sul luogo dove il poliziotto Pasquale Apicella era rimasto ucciso nello scontro fra la sua volante e il furgoncino dei rapinatori che avevano tentato una rapina in banca. Fiori e preghierine a mani giunte da chierico fedelmente ripresi da telecamere e telefonini a miglior vantaggio di tg e social, che tuttavia non sono bastati a non farlo cacciare via in malo modo dai napoletani per la poco nobile speculazione sulla morte di quell’agente (come testimoniato da diversi video).
Non un fiore né una Salve Regina, ma nemmeno mezzo vocalizzo da parte dell’ex invocatore dei «pieni poteri» per quelle forze dell’ordine bersagliate al Circo Massimo dalla violenza nera dei suddetti contendenti esibitisi in una curiosa interpretazione della dialettica hegeliana. Alla tesi di Simone Carabella (Curva Sud Roma, fra i suoi titoli): «Coi giornalisti io parlo quanno me pare»; seguiva l’antitesi di Giuliano Castellino (Fn): «No, tu nu’ parli»; con la sintesi: ‘na pizza ‘n faccia. Il tutto sotto le trionfanti note wagneriane della cavalcata delle valchirie. A Casa (Pound) ridono ancora. (E ce n’hanno bisogno d’una ventata d’allegria, poveretti, ché «c’è poco da ride’» – per dirla alla Verdone – dopo il dispiacere di quel provvedimento di sgombro).
Insomma, per le destre, mala tempora currunt (sed peiora parantur?): dalla marcetta della destra parlamentare nel giorno della festa della Repubblica (italiana, non sociale) non c’è pace per i cuori neri. La sfiga s’è accanita prima contro il triumvirato Meloni-Salvini (sì, vabbé, c’era pure Tajani), mortificandolo con un clamoroso flop, poi contro le tartarughe poundiane con tanto di sgombero (come non bastasse l’affronto di un anno fa della rimozione del nome in rigorosi caratteri romani ripresi dal fascismo), poi contro i cuori neri convenuti al Circo Massimo in una ennesima rappresentazione barbina urbi et orbi.
L’epilogo dei giorni neri è stato infatti il peggiore che si potesse immaginare, segnato com’è stato non dalla comunicazione di un preciso e dettagliato programma antagonista alle politiche governative, ma dalle papine. Non dalla forza della ragione, ma dalle ragioni della forza (in ciò, bisogna tuttavia riconoscerne la coerenza). Incipit è stato il contrasto/contatto fra Simone Carabella e Giuliano Castellino (poi le forze dell’ordine e i giornalisti sono stati, coerentemente, presi a sassate).
Per i meno edotti della raffinata galassia neofascista romana, ricordiamo i tratti specifici dei due cuori neri che invece di battere all’unisono si sono battuti fra loro. Simone Carabella è noto per i suoi tuffi nel Tevere a ogni capodanno, per la sua attività anticomunista sui social, per quella antimigranti per strada, per le sue dotte argomentazioni NoVax, e altre opere meritorie di siffatta natura che non potevano sfuggire a Giorgia Meloni: con un pedigree così blasonato, la capa dei fratellini non poteva che candidarlo – almeno – alle elezioni regionali del Lazio. L’altro, Giuliano Castellino, è dirigente romano di Fn, oltre a essere noto per molteplici contrasti con le forze dell’ordine costatigli alcune condanne (su di lui pende l’accusa per un’aggressione ai giornalisti dell’Espresso a gennaio 2019, per cui il Pm ha chiesto una condanna a sei anni, nonché per truffa in un altro procedimento, perché avrebbe sottratto 1,3 milioni di euro al Sistema sanitario nazionale insieme all’imprenditore Giorgio Mosca, ndr).
Le tifoserie dei due opposti estremismi nonostante il medesimo cromatismo politico, sono quindi entrate in azione pro domo proprio leader, e quando si sono accorti della cazzata, cioè che si stavano menando fra loro, hanno rivolto l’aggressione – manco a dirlo – verso i giornalisti nonostante le loro – giuste – vibranti proteste da Shel Shapiro («Che colpa abbiamo noi?»). Nel frattempo, la polizia s’era incazzata. E aveva cominciato a vibrare i manganelli, dopo essere stata presa pure lei a sassate e bottigliate.
A mezzo migliaio di chilometri stradali, ma ad anni luce di distanza politica, si svolgeva a Milano una manifestazione antigovernativa organizzata da alcuni sindacati di base unitamente a sigle della sinistra antagonista, che coinvolgeva 5mila persone. Una protesta sfilata in via Larga, cioè non a caso sotto il naso di Assolombarda, e conclusasi in piazza del Duomo, dove, oltre a fare la conta di quelle che per loro erano le politiche troppo filo confindustriali del governo Conte, venivano rilanciate le richieste di maggior tutela del lavoro sul fronte della sicurezza, visto che di lavoro si continua a morire. Il tutto, pacificamente.
Due diverse interpretazioni del dissenso, insomma, anche se in linea con le diverse genesi e le ancor più diverse palingenesi. Genesi e palingenesi che segnaliamo – laddove ce ne fosse bisogno – alla ministra Lamorgese semmai volesse emulare tal suo collega Paolo Emilio Taviani, che proprio in quel 1973 dalle effervescenze neofasciste summenzionate, sciolse Ordine Nuovo per il suo palese richiamo al fascismo (lo stesso di CasaPound, Forza nuova e similaria, insomma).