La Lega cala, Fratelli d’Italia sale. La destra, insomma, compensa: laddove scende uno, sale l’altro, e viceversa, non come la sinistra, che coglie sempre al volo l’opportunità di declinare contro sé stessa l’antica locuzione latina del divide et impera. Per le prossime regionali in Puglia, ad esempio, Renzi ha pensato bene di infilare un dito in un occhio a Emiliano, schierando – nientepopodimeno – che Scalfarotto. Insomma, se – storicamente – la sinistra perde anche perché si divide, la destra trova sempre modo di non disperdere il suo elettorato.
Il triunvirato Salvini-Meloni (vabbè, c’è pure il Caimano) non solo non si divide, ma intercetta addirittura i voti di tutti i neofascisti d’Italia, da CasaPound a Forza Nuova, passando per Militia e tutte quelle formazioni e formazioncine maleodoranti che impunemente (Quousque tandem abutere… patientia nostra?) concimano l’estrema destra dalle Alpi alla Trinacria. A sinistra, invece, se la compagine pentastellata garantisce costanti mala tempora, quella renziana proietta peiora parantur. Per fortuna c’è il capitan findus della politica italiana, in arte: Matteo Salvini. Sì, perché il vento del Nord soffia ormai forte contro quel «Cafone politico ragliante e tre volte somaro» per dirla col governatore De Luca.
Alla base dello scollamento con l’elettorato padano, l’inaccettabile tradimento dell’azzeramento delle ragioni delle regioni del Nord. Una azione, la sua – quella del «ragliante» – che viene da lontano. No, non dallo scorso agosto, cioè da quelle spiagge papetiane che – in una giornata particolarmente assolata – lo indussero a invocare mussolinani «pieni poteri» fra un mojito e un topless. Da prima. Esattamente dal dicembre 2017. Fu in quella infausta (per i padani) giornata che il futuro capitano evirò la Lega Nord, tagliandole il Nord. Quel pendaglio di cui andavano così fieri i leghisti, che non perdevano mai occasione per ricordare come loro ce l’avessero sempre duro, quel nord. Già alle politiche del 2018, il partito che fu dei Bossi, gli Speroni, i Maroni e i di loro cerchi magici, si presentò senza sole delle Alpi e con il nuovo casato dei salvinidi presenti con tanto di scritta nel logo: Lega Salvini premier. Resiste solo Alberto da Giussano, probabilmente perché non esiste. E con lui resistono pure tutti quei leghisti che si sono ritrovati d’improvviso senza casa: senza quel Nord che aveva dato i natali al loro partito dopo i diversi accoppiamenti con la Lega Lombarda e la Liga Veneta. Che sia in effetti la veneta Liga la vera mamma della Lega sono ormai in molti a sostenerlo. E non solo nei bar e nelle cucine, ma pure nelle sedi in cui un tempo, unito e squillante, si alzavano quei bei cori contro i meridionali cui partecipava pure “il traditore”, tipo «Senti che puzza, arrivano i napoletani». (Non più tardi dello scorso gennaio, Salvini è stato condannato per quei cori).
Evirato come Urano il senatur celodurista, e insignificante la di lui progenie trigliata, l’aspirante Zeus dell’Olimpo della neolega, ha tuonato l’orribile saetta: «Prima gli italiani». Quelle belle e antiche e storiche grida, tipo «prima i lombardi», «prima i veneti», e via di dettaglio: «prima i milanesi», «prima i bresciani», «prima i veronesi», «prima i padovani», e poi giù, giù “democraticamente” per ogni città e cittadina, che una felpa non la si sarebbe negata manco a San Felice del Benaco (ridente paesello della costa bresciana del Lago di Garda) che a suo tempo aveva dato vita a Prima Linea, non echeggiavano ormai più nei raduni pontidiani, sostituiti com’erano stati perfino da blasfemie quali «prima i napoletani» e giù, giù di terronia, che proprio non si potevano sentire senza vomitare la polenta con le aole appena ingurgitate alla festa padronale fra una bestemmia e una «Roma ladrona» che ci sta sempre bene. Della Lega di Bossi&Maroni, quella che prendeva le distanze dagli italiani, non c’è ormai più traccia. Quella Lega che (parrebbe ora una bestemmia) sosteneva pure una sorta di antifascismo militante. «Andremo a prendere i fascisti uno per uno» tuonava il Bossi nei comizi in cui schifava gli italiani. «C’è forse qualche italiano qui in mezzo?» urlò rauco in un comizio a Maderno, sul Garda. Trovandomi lì per dovere di cronaca, stavo per alzare incautamente la mano quando mia moglie mi salvò dall’insano gesto.
Nell’ultima edizione del festival di Pontida, i leghisti della prima ora hanno dovuto ingoiare insomma nuove – irritanti – parole d’ordine: quelle poi risuonate nel recente congresso. All’ombra dell’inesistente Alberto da Giussano, sono cadute lacrime padane e con esse è precipitato il commovente sogno romantico di separare il Nord dal Sud «con un bel muro all’altezza di Bologna»: cioè altezza di quel confine che separava la civiltà d’origine celtica da quella d’origine greca (notoriamente fatta di fannulloni, vedi che fine che ha fatto…), come spiegavano i più colti eruditisi sulle tesi del fu Gianfranco Miglio, ora tornato quel Carneade che era prima che Bossi lo fulminasse con un’ampolla all’ombra del Monviso. «Sono andato a Pontida anche quest’anno – dice un leghista della prima ora incontrato in Valsabbia, terra da numeri bulgari per la Lega di Bossi – ma non mi è piaciuto quello che ho sentito». Diciamola tutta: Salvini è un traditore che manco Iago. «Prima gli italiani? E tutti questi anni abbiamo scherzato, allora?». Poi c’è l’antifascismo, nel senso che non ce n’è più traccia, anzi… «Non è un mio problema. Non mi interessa niente di fascisti o comunisti – spiega l’ex dreamer della “padania libera” -. A me interessa che i miei soldi restino qui». L’orfano padano si sente insomma tradito da chi ha ucciso l’antico sogno di separare i destini della padania dal resto di un paese – tuttora – percepito come «terrone» da Bologna in giù.
Il glorioso «non si affitta ai meridionali» degli anni 60 riapparso recentemente in più città del Nord lascia tuttavia qualche speranza a chi si sente di dover praticare una sorta di resistenza attiva sul fronte della Lega «per la liberazione della padania». Cartelli che certificano una resistenza. La persistenza della filosofia leghista della prima ora. Quella filosofia ora incarnata da Luca Zaia, quel governatore del Veneto che può contare sullo zoccolo duro dei serenissimi, gli irriducibili pasdaran della Repubblica di Venezia. Ve li ricordate? Ma sì, quelli che avevano dato l’assalto al campanile di Venezia su mezzi corazzati (si fa sempre per dire) con le spiegazioni in rigoroso veneziano, tipo «struca el buton» a significare di schiacciare il bottone per aprire questo o quello nel suddetto mezzo blindato (…per dire). È insomma Zaia il salvatore della patria del Nord, quel governatore così padano, così veneto, così – autenticamente – leghista che non solo non rinnega le nobili origini separatiste, ma capace di travasare nelle orecchie padane parole melodiose, magari in trevigiano, ormai disperse ai piedi del Vesuvio, tipo: «Staremmo manco qui a fa’ i discorsi sull’euro, ciò, se non avessimo messa Italia che la gà i libri da porta’ in tribunale, ciò, che l’è fatta de zialtroni, de fannulloni, de zente che la magnia tutto chel che ‘l Nord ‘l produse, ciò». Quella mezza Italia (e passa, in realtà geografica) che aveva spinto gli Zaia di tutto il Nord a unirsi sotto la stessa bandiera di Alberto da Giussano, e chi se ne frega se non è mai esistito.
Da tutto questo marasma che si sta muovendo attorno al capitano citofonante, è proprio il findus (ex) leghista a trarne le conseguenze peggiori. Per una Meloni che al centro sud può intercettare meglio e più di lui quei voti autenticamente fascisti e finora rifugiati nella variegata destra italiana, al Nord, Zaia può ridare casa a chi è stato scippato anche del linguaggio. «Semo tutti italiani, un bel casso!» potrà finalmente tornare a gridare a Pontida il discendete di Alberto da Giussano (e «frega ‘n casso se l’è mia esistìt’»). Il risultato sarà – da qui alle prossime elezioni politiche – che il findus della politica italiana si ritroverà a governare non più un veliero da oltre il 35% ma una bagnarola che sta in piedi coi quattro venti: come quelle su cui s’avventurano disperati che lui chiama sobriamente terroristi.