A un anno dallo sbarco di Lampedusa che alla capitana della Sea Watch è costato un arresto totalmente ingiustificato (come stabilito in due sentenze) poco o nulla è cambiato: le norme che limitano il raggio d'azione del soccorso in mare sono ancora lì. Un bel cortometraggio ricostruisce la sua battaglia di civiltà

Il 29 giugno di un anno fa, ma sembra passata un’era, dopo giorni di attesa al largo, la nave Sea Watch, dell’omonima ong tedesca, forzò il divieto di attracco imposto dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini e sbarcò a Lampedusa con il suo carico di 42 persone sfuggite alle torture in Libia. Alcuni Paesi Ue avevano già sottoscritto un accordo garantendo una redistribuzione europea dei richiedenti asilo ma al ministro serviva, allora come oggi, un’arma di propaganda e quindi prima impedì l’ingresso in porto successivamente le autorità italiane, obbedendo ai decreti del ministro con eccessivo zelo, arrestarono la capitana della Sea Watch, la cittadina tedesca Carola Rackete. Carola divenne immediatamente un simbolo, da una parte fu ricoperta da ingiurie (il ministro dell’Interno è stato per questo querelato dalla cooperante), di insulti di stampo razzista e sessista dal popolo dei “leoni da tastiera” ma dall’altra è scattato un magnifico processo di identificazione con la giovane “capitana”, per il tono austero delle sue risposte alle provocazioni giunte, per la limpidezza etica e la profonda empatia dimostrata durante la sua permanenza in Italia. Il tribunale di Agrigento prima, la Corte di Cassazione poi, le hanno dato ragione riconoscendo il fatto che aveva agito per un dovere supremo, garantire la sicurezza delle persone a bordo, come fa ogni persona di mare. Dagli arresti domiciliari, per alcuni giorni, è stata poi liberata e alla fine definitivamente scagionata, dimostrando l’autonomia del potere giudiziario dai condizionamenti politici.

La nostra copertina del 5 luglio 2019, disegnata da Paola Formica

Ma in molti, nel bene e nel male non si sono dimenticati di quei giorni. Fra i primi la regista Alice Rotiroti che ha realizzato sulla vicenda un cortometraggio dal titolo Mezzagiornata, in cui l’angolo di visuale della vicenda è quello di un nucleo familiare “normale” (guarda il trailer). Si tratta di un piccolo gioiello tanto semplice nella sceneggiatura quanto capace di colpire le corde giuste, creando interconnessione fra una vicenda pubblica e il vissuto privato, gli stereotipi e la necessità di porsi domande e di sfuggire a questi. La regista considera il suo lavoro come uno strumento per sensibilizzare e far discutere: «Verrà presentato venerdì 26 giugno a Reggio Emilia in una serata organizzata dal Reggio Film Festival che proietterà i corti di edizioni precedenti e Mezzagiornata come unico corto in gara per l’edizione di quest’anno che si terrà a novembre. Poi il 27 sarà a Venezia all’Intercultural festival» E qusto è solo l’inizio. «Solo ora abbiamo cominciato a inviarlo – racconta Alice Rotiroti – e molti festival non hanno ancora chiuso le selezioni quindi ce ne saranno altri. La cosa che pensiamo e che oltre al percorso festivaliero visto il messaggio e la natura del film saremmo disponibili a con cederlo in proiezione in occasioni anche diverse da festival (eventi, presentazioni, dibattiti). Chi fosse interessato può scrivere a [email protected] valuteremo volentieri l’inserimento».

Sarà necessario. È di questi giorni la notizia che riporta la Sea Watch al centro della cronaca: 28 persone sono state raccolte al largo della Libia su una nave da “quarantena”, la Moby Zaza, sono risultate positive al Covid 19 anche se asintomatiche, un altro è ricoverato invece in ospedale. fanno parte di un gruppo di 211 persone poi trasferite al largo di Porto Empedocle. La vicenda ha già risollevato la prevedibile canea di chi vuole i porti chiusi e che ha già dimenticato che i porti sono di fatto ancora chiusi (le persone delle navi umanitarie che giungono non vengono sbarcate a terra, i richiedenti asilo e gli equipaggi seguono rigide norme sanitarie e sono già in essere accordi per la redistribuzione); la riapertura delle frontiere, dettata dai bisogni dell’economia, è già in essere e, speriamo contenuti, sarà inevitabile avere nuove persone a rischio; soprattutto poi il peggioramento delle condizioni in Libia, con l’impossibilità di seguire le norme di distanziamento e le forme di protezione necessarie ha aumentato anche lì il numero dei contagi. Dobbiamo “lasciarli a casa loro?” Blindarci, dalla Libia come dal resto del mondo? Oppure possiamo agire in nome del bene collettivo, garantendo la salute pubblica di tutte e tutti, come ha fatto Carola Rackete? Un tema del genere non può essere lasciato alla propaganda, interroga sulle ragioni per cui si aspira ad un modello di vita diverso in cui non ci siano persone da sommergere e persone da salvare.