Nemmeno la sua morte fermerà la lotta per il riconoscimento dell’identità degli afroamericani e contro le discriminazioni

Se dovessimo scegliere un’immagine per raccontare la vita di John Lewis sarebbe certamente quella di una marcia. La lotta contro il tumore al pancreas da cui era affetto e che l’ha costretto, nella notte tra venerdì e sabato, a fermarsi per sempre, è stata forse l’unica battaglia che non è riuscito a vincere. Con la sua morte se ne va un pezzo di storia degli Stati Uniti d’America, iniziato in una cittadina del Sud e terminato tra i seggi del Congresso.

John Lewis era nato a Troy, in Alabama, nel 1940 da una famiglia afroamericana. All’età di sei anni aveva incontrato solo due persone bianche. Crescendo e interagendo di più con la realtà cittadina, John ha potuto sperimentare sulla sua pelle la durissima segregazione degli Stati del Sud. Un abominio che lo spinse a trovare in Martin Luther King jr il suo ispiratore fin dall’adolescenza. Diventò il presidente della Student nonviolent coordinating commitee (Sncc) e fu tra gli organizzatori della marcia su Washington, la celebre manifestazione del 1963 in cui King pronunciò il suo famosissimo discorso «I have a dream». Lewis marciò di nuovo accanto al suo eroe, il dott. King, nella storica dimostrazione a supporto del diritto di voto degli afroamericani del 1965 che partì dalla cittadina di Selma e arrivò fino a Montgomery, sempre in Alabama. Le immagini di lui che viene picchiato dalla polizia, poco più che ventenne, hanno fatto la storia della lotta per i diritti civili, diventando a loro volta d’ispirazione per nuove generazioni di attivisti.

La battaglia di John Lewis, dall’adolescenza alla sua morte, è stata sempre la stessa: vedere riconosciuta e rispettata l’identità degli afroamericani. È stato una delle figure chiave del Civil rights movement e della lotta contro la fine della segregazione razziale, anche quella de facto che ancora affligge alcuni aspetti della vita dei neri americani (come, ad esempio, quanto concerne il diritto di voto). La speaker democratica Nancy Pelosi, annunciando la sua morte, lo ha definito «la coscienza del Congresso», un ruolo che ha ricoperto sempre con passione sin dalla sua elezione nel 1986, mantenendo vivo lo spirito che negli anni Sessanta infuocava il movimento per i diritti civili. Come ricorda il Washington Post, grazie al suo impegno nel 1991 è passato un nuovo Civil Rights act che facilita le cause legali contro i datori di lavoro che compiono discriminazioni nei confronti dei loro dipendenti. Sempre grazie alla sua tenacia, nel 2003 è stato autorizzato e costruito il Museo nazionale di storia e cultura afroamericana al National Mall, il viale di Washington dove si tenne la Marcia del 1963. Per tutta la sua carriera esemplare, nel 2010 l’allora presidente Barack Obama l’ha decorato con la Medal of freedom, la massima onorificenza civile che si può ottenere negli Stati Uniti. In occasione del suo insediamento, Obama aveva ringraziato esplicitamente Lewis per il suo impegno per il riconoscimento dei diritti degli afroamericani, dicendo che se era potuto arrivare fino alla Casa Bianca era stato solo «A causa tua».

I suoi ultimi anni, sempre al suo seggio alla Camera dei Rappresentanti come deputato della Georgia, sono stati segnati da una dura contrapposizione alla politica del presidente Donald Trump. Nel 2017 ha boicottato la sua cerimonia di inaugurazione, mentre quando si è trattato di votare per il procedimento di impeachment Lewis ha invitato i suoi colleghi a rispettare il loro obbligo di «essere dal lato giusto della storia».

Nemmeno la malattia ha fermato la sua esigenza di marciare. Una figura così importante per la battaglia per i diritti civili non poteva rimanere sorda di fronte alla morte di Geroge Floyd e al riaccendersi del movimento Black Lives Matter: la sua ultima apparizione pubblica è stata al fianco della sindaca democratica di Washington D.C., Muriel E. Bowser, nella piazza intitolata proprio al movimento Blm.

Nel 1963, durante la Marcia su Washington, John Lewis pronunciò un discorso che divenne meno celebre di «I have a dream», ma che può essere considerato un valido testamento e un invito per gli Stati Uniti del 2020 che a novembre dovranno scegliere chi sarà il loro prossimo presidente: «Svegliati, America!». Rest in power, John Lewis.

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