Cristiano Romani fa l’infermiere ad Arezzo. Lavora al 118: è abituato a intervenire in casi disperati. Mai avrebbe pensato che un “caso disperato” sarebbe potuto diventare lui stesso. «Era il 21 marzo: stavo lavorando quando a un tratto ho cominciato a sentirmi poco bene. Al Pronto soccorso ho misurato la febbre: 37,5». Passa qualche ora e la temperatura sale ancora. Dopo un giorno si somma anche una pesante difficoltà respiratoria. Si rende necessario un tampone: positivo al Covid-19.
«I primi 5 giorni – racconta oggi Romani – sono stati tremendi: avevo una fortissima congiuntivite, non riuscivo a respirare né tantomeno a mangiare e avevo la febbre quasi a 40». Solo dopo dieci giorni e una lunga quarantena l’infermiere esce da quell’incubo. Romani è uno dei 49.021 casi di contagio da Covid-19 sul lavoro segnalati all’Inail. Un numero spaventoso e destinato ad aumentare dopo che l’infezione contratta sul luogo di lavoro è stata parificata a infortunio (anche se l’Istituto, dopo alcune riserve di Confindustria, è diventato molto più stringente sulle categorie ammesse a risarcimento). Accanto a questi ci sono i numeri di chi è deceduto: 236, circa il 40% dei casi mortali denunciati dall’inizio dell’anno.
Se c’è un fenomeno che non è andato in lockdown, dunque, è proprio quello delle cosiddette “morti bianche”. Morti che in realtà di candido non hanno proprio nulla. La scia di vittime è lunga e in netta crescita rispetto al passato: tra gennaio e maggio sono state 207.472 le denunce di infortuni sul lavoro, 432 delle quali con esito tragico (+10,5% rispetto al periodo precedente, quando erano stati “solo” 391). Ogni giorno che passa in media muoiono tre persone e altre 1.374 si infortunano semplicemente perché, coronavirus o no, lavorano. Una vera e propria strage che…
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