Qualche anno fa avremmo potuto dire di non sapere. Oggi no. Oggi sappiamo che dire Guardia costiera libica significa dire traffico di esseri umani … Finanziarla significa finanziare chi stupra, tortura e uccide». L’intervento dell’ex presidente Pd Orfini alla Camera, con cui ha ribadito quella che ormai è una verità sotto gli occhi di tutti, non è bastato a far invertire la rotta al proprio partito. Nonostante l’indecenza del supporto italiano a milizie che deportano e usano violenza contro esseri umani colpevoli solo di essere profughi, il rifinanziamento della missione in Libia, dopo l’ok al Senato, è stato approvato il 16 luglio anche nell’altro ramo del Parlamento, con il Pd che, a parte alcune defezioni, dice sì unendosi ai voti del M5s e delle destre, confermando una sostanziale omogeneità sul fronte delle politiche migratorie. Mentre Leu si oppone e Italia viva esce dall’aula. Alla fine i favorevoli sono 401, 23 i contrari, 2 gli astenuti.
La risoluzione impegna l’Italia a stanziare oltre 58 milioni di euro per l’operazione militare che porta avanti in Libia, di cui 10 destinati alla missione bilaterale di assistenza alla sedicente Guardia costiera libica. Una cifra maggiore di tre milioni rispetto al budget dello scorso anno. Parliamo di attività di formazione e addestramento.
«Con tali fondi – ricorda in una nota l’Arci – si arriva a una cifra di oltre 22 milioni spesi dalla firma del Memorandum nel 2017 direttamente in supporto alla Guardia costiera libica, a cui si devono aggiungere quelli stanziati nell’ambito delle altre missioni. Il risultato fino ad oggi è stato l’intercettazione da parte delle autorità libiche di oltre 40 mila persone in fuga, portate di nuovo nell’inferno dei campi di detenzione libici (5.427 secondo i dati disponibili all’Unhcr nel 2020)».
«In aggiunta – prosegue l’Arci – quest’anno, alcuni dei 39 membri della Guardia di finanza e 8 dell’Arma dei carabinieri (operativi in Libia nella missione bilaterale, ndr) saranno impiegati nella costruzione di un cantiere navale e di una mini scuola nautica in territorio libico, su cui ad oggi non si ha alcuna informazione». Nel dossier parlamentare sulla proroga delle missioni internazionali 2020, in effetti, le due infrastrutture vengono citate en passant, senza aggiungere dettagli.
Proseguono, dunque, gli effetti nefasti del patto Italia-Libia sottoscritto il 2 febbraio 2017 a Roma da Al-Serraj e Gentiloni, sulla «cooperazione nel campo dello sviluppo, del contrasto all’immigrazione illegale, al traffico di esseri umani, al contrabbando e sul rafforzamento della sicurezza delle frontiere». L’accordo si è rinnovato automaticamente il 2 novembre 2019, in assenza di un impegno italiano per la sua interruzione, nonostante le numerose richieste della società civile e le testimonianze drammatiche che arrivano quotidianamente dalla Libia. «Il presidente Serraj mi ha consegnato la proposta libica di modifica del Memorandum» ha dichiarato il ministro Di Maio all’Ansa a fine giugno, annunciando per il 2 luglio l’avvio dei relativi negoziati. I cui risultati, al momento, latitano.
L’intesa militare, ad ogni modo, è solamente uno degli aspetti della collaborazione Roma-Tripoli inaugurata tre anni fa. Nel Memorandum si parla anche dei «centri di accoglienza» per «migranti illegali», i famigerati lager libici, e dell’impegno dell’Italia ad «adeguarli», «finanziarli» e formare il personale libico che li mantiene operativi.
I fondi per realizzare tali specifici interventi rappresentano una voce del Fondo Africa, un piano affidato dal 2017 alla Farnesina e rinnovato ogni anno per “supportare” i Paesi più interessati dal fenomeno migratorio. Sino ad oggi per le attività nella sola Libia sono stati destinati 60 milioni di euro. Ed una parte di questa cifra, negli anni, è stata affidata – tramite bandi predisposti dalla sede di Tunisi dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, l’Aics – ad Ong, formalmente al fine di migliorare le condizioni di vita nei vari lager per migranti presenti nel Paese.
Sin da subito, la sinistra e gli attivisti in difesa dei migranti definirono queste gare “bandi della vergogna”, per i rischi palesi che potessero finire col favorire e perpetuare un sistema di detenzione che calpesta ogni principio di umanità. Diverse inchieste giornalistiche hanno confermato nel tempo che tale ipotesi non era campata in aria. E adesso un dettagliato report dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) fornisce ulteriori, preziosi, elementi sul tema.
Il focus dell’approfondimento verte su tre bandi finanziati dall’Aics nel 2017, per un valore totale di sei milioni di euro, che avevano come obiettivo una serie di interventi nei lager libici. Si parla di «cure mediche», «acqua e igiene», «counseling psico-sociale», di «alimenti e generi di prima necessità». E – come vedremo – non solo.
«Dalla nostra analisi emerge una notevole quantità di dubbi sull’efficacia di questi interventi – dice Salvatore Fachile, avvocato Asgi che ha curato il report nell’ambito del progetto Sciabaca e Oruka -. La domanda che viene naturale è: queste attività riescono a controbilanciare in modo significativo quelli che l’Italia considera “effetti collaterali” dell’operazione di esternalizzazione delle frontiere in Libia che porta avanti da anni?»
«Ebbene – prosegue Fachile – il quadro che tracciamo indica che, a prescindere dalla volontà delle singole Ong, la loro capacità di incidere nel miglioramento del benessere dei migranti è assai bassa, e al contempo c’è il rischio concreto che il flusso di denaro che viene materialmente gestito da personale locale, visto che la situazione di sicurezza non consente la presenza di personale italiano in loco, sia del tutto incontrollabile e possa finire col rafforzare gli scopi criminali di milizie che quotidianamente compiono crimini contro l’umanità».
Le criticità rilevate nel report di Asgi sono molteplici. Innanzitutto, nei bandi stessi gli interventi delle Ong vengono definiti come risorse «in grado di supportare un governo in difficoltà nel fornire assistenza volta a salvare vite delle persone più vulnerabili», quando è ormai chiaro che lo stato dei lager libici è legato a precise decisioni politiche di Tripoli. Alcune attività di supporto sovvenzionate dall’Italia, inoltre, sono specificamente indirizzate a donne e bambini presenti nei lager, ma i bandi non prevedono alcuna misura per tentare di evitare o ridurre la loro detenzione. Più in generale, ad oggi, «non si è mai registrata alcuna richiesta o pressione da parte del governo italiano come contropartita degli interventi finanziati dall’Aics». Infine, alcuni interventi finanziati non solo non rispondono ad alcun bisogno essenziale dei detenuti, ma incidono addirittura sulla capacità strutturale del centro di ospitarne altri in futuro. Ad esempio, tra le attività finanziate dall’Italia nel centro di Tarek al matar si contano il rifacimento di muri e pavimenti, la costruzione di un bagno, l’istallazione di caldaie. Ma c’è di più. Rovistando tra i rendiconti finanziari delle Ong aggiudicatarie dei progetti, salta fuori che tra le attività foraggiate per i lager di Al Judeida (un quartiere di Tripoli) e Khoms (100 km a est della capitale, in entrambi le condizioni di vita sono terribili) c’è anche la «riabilitazione di infrastrutture di base», quali «aerazione, recinzione, copertura, cancelli». Aerazione a parte, le altre infrastrutture hanno una funzione «sia protettiva che contenitiva» sottolinea Asgi. Per queste attività era previsto un budget di 75mila euro, dal rendiconto intermedio fornito da Aics al 18 marzo 2019 risultano spesi solo 10.695,18 euro.
«Ciò che abbiamo ulteriormente chiarito è che con questi bandi l’Italia sovvenziona interventi che rafforzano la capacità delle milizie libiche di detenere migranti e mantenerli in prigionia. È un fatto grave», dice ancora Fachile a Left.
«Nel periodo in cui l’Italia ha formalmente finanziato, tramite le Ong, attività di assistenza medica nei lager di Tarek al Matar e Triq al Sikka abbiamo ritrovato i nomi di sei persone morte di Tbc in questi centri, morte sul pavimento di queste strutture, senza che abbiano potuto ricevere neanche una aspirina. Abbiamo ricevuto testimonianze di chi ha visto coi propri occhi questa tragedia. Mentre a Tajoura ho parlato con i migranti che sono stati costretti a scaricare i camion delle Ong italiane: Ahmed, che si è rifiutato di farlo, è stato ucciso», racconta a Left Sarita Fratini, scrittrice e animatrice del collettivo Josi & Loni project impegnato nel fermare le deportazioni verso la Libia.
Per Ahmed, e per tutte le vittime del sistema disumano di internamento etnico in Libia, abbiamo ora a disposizione un ulteriore tassello di verità. Adesso il governo non può più fare finta di niente.
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