«Ho difficoltà a distinguere il cinema civile dal cinema tout court. Ogni volta che filmiamo qualcosa dichiariamo chi siamo», dice la film-maker, che a Left presenta la sua arte. Fatta di incontri, capacità di ascoltare e raccontare sfidando i limiti del linguaggio

Costanza Quatriglio è uno dei maggiori talenti del nuovo cinema documentario italiano, con una produzione filmica di rara intensità e coerenza, con un taglio estetico originale e profondo, ma anche sempre con una forte partecipazione emotiva. Siciliana, direttrice artistica della sede di Palermo del centro sperimentale di cinematografia, due volte Nastro d’Argento nella categoria miglior documentario con Terramatta, nel 2013, e Triangle, nel 2015, con 87 ore, dedicato alla tragica morte del maestro anarchico Mastrogiovanni, sempre nella categoria documentari, ha ottenuto il Premio speciale 2016. Nel 2018 ha presentato al Festival di Locarno il film Sembra mio figlio, vincitore, tra gli altri, di un Ciak d’Oro, e nello stesso anno ha ricevuto il Premio Visioni dal Mondo.

Tu fai un cinema della realtà e hai raccontato anche storie dolorose con molta partecipazione, penso a 87 ore sulla morte del maestro anarchico Mastrogiovanni, e l’ultimo Sembra mio figlio, la vera storia di Mohammad Jan Azad, che scappa dalla guerra in Afghanistan e poi torna nella sua terra alla ricerca della madre. Il documentario, tra l’altro è qualcosa che cresce sul campo, è un cinema vivente. Come costruisci i tuoi film insieme alle persone?
L’incontro con le persone è fondamentale. L’ascolto è qualcosa di generante e rigenerante. Nel cinema documentario ricevere l’ascolto favorisce il narrarsi; è un mutuo riconoscimento: tu riconosci me che sto cercando di comprendere, e io riconosco te in un processo che dura nel tempo. L’incontro è un affidarsi reciproco. Mi piace dire che si tratta di una postura, quella dell’attenzione, che ha a che fare con un ascolto che non si stanca, non consuma. Sembra mio figlio è del 2018, e nasce dalla storia che mi è stata raccontata da Mohammad Jan Azad, molti anni dopo esser stato tra gli adolescenti migranti protagonisti del mio documentario Il mondo addosso, realizzato tra il 2005 e il 2006. Jan è stato anche colui che mi ha portato a conoscere qualcosa che trascende la sua stessa vita e che riguarda il popolo Hazara, costretto alla diaspora dalle persecuzioni perpetrate dai talebani in Afghanistan e in Pakistan. Per raccontare tutto questo c’è voluto un attraversamento della vita di Jan e l’andare nel territorio della finzione. Lui stesso ha collaborato alla…

L’Intervista corsara prosegue su Left in edicola dal 24 luglio

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