Polibio e una lunga tradizione parlavano della presenza dell’antico popolo italico a Pompei e altrove. Ma fu relegata nel novero delle favole. La mostra al Museo archeologico nazionale di Napoli fa piena luce sulla Campania etrusca e sul rapporto dialettico con la Magna Grecia

«In quel periodo accadde… che entrambi (Giovanni Patroni e Antonio Sogliano) ripudiammo il dogma proclamato dal Von Duhn sulla inesistenza di una dominazione etrusca in Campania, che si asseriva doversi ritenere una favella o tutt’al più un’ombra: dogma accettato fino a quel tempo da tutti i pompeianisti, sì che non si doveva parlare di Etruschi a Pompei, e non se ne parlava. Chi non ha vissuto quegli anni nell’ambiente ove Pompei è particolarmente studiata, non sa in quali curiose condizioni debbano talora svolgersi gli studi. Ripudiando il dogma, si doveva invece ridare valore alle fonti che annoverano gli Etruschi tra i dominatori e possessori di Pompei, si doveva dunque parlare di Etruschi a Pompei e cercarveli; come d’altra parte si doveva ammettere la fondazione etrusca di Capua… e cercarvi le tracce di qualche industria caratteristica degli Etruschi. Chi spinse e chi fu spinto a questo nuovo indirizzo? Non saprei ben dirlo. A volte mi sembra di essere stato io il propulsore, a volte ne dubito» scriveva Patroni tra il 1946 e il 1948.

Le frasi di Patroni, tratte da un suo scritto commemorativo in onore del pompeianista Antonio Sogliano, descrivono in modo molto efficace quale fosse l’atmosfera che si respirava nel mondo accademico napoletano ancora alla fine dell’Ottocento in merito alla questione dibattutissima dell’esistenza o meno di un dominio degli Etruschi esteso anche alla Campania. Un vero e proprio “terrore”, come Patroni aveva già ricordato in un altro suo scritto (Patroni 1912, pp. 601-602), legato anche all’assertività delle posizioni espresse sin dalla prima metà del XIX secolo da alcuni dei più illustri storici e archeologi tedeschi (Barthold Georg Niebuhr, Karl Otfried Müller, Theodor Mommsen, Friedrich von Duhn ecc.), artefici di una vera e propria demolizione della tradizione, relegata nel novero delle favole anche in virtù dell’assenza, almeno apparente, di testimonianze materiali e/o epigrafiche che potessero indubitabilmente suffragarle. Furono proprio ragioni come queste a indurre in errore Giulio De Petra, all’epoca direttore del Museo, quando nel 1898 espresse parere negativo in merito all’acquisto della Tegola di Capua. Fu così che il secondo testo etrusco per lunghezza e importanza poté tranquillamente emigrare a…

L’articolo prosegue su Left del 7-13 agosto

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