«Il cambiamento della società può iniziare anche da un modo di rapportarsi non violento nell’incontro con l’altro» dice l'autrice, insieme a Roberto Vicaretti, del libro Non c’è pace, in cui è ricostruita e indagata la crisi e l’evoluzione del movimento pacifista

All’inizio degli anni Duemila, nell’ambito del Social forum, l’idea di un movimento pacifista, internazionalista, era molto presente. Era un orizzonte concreto. Sembrava a portata di mano per tanti di noi che all’epoca eravamo New global e che partecipammo al Social forum di Firenze con un rifiuto profondo della violenza subita a Genova nel 2001. Poi, nonostante tutto, qualcosa si è perso. Quel movimento è diventato carsico, come scrivono Romina Perni e Roberto Vicaretti in Non c’è pace (People edizioni). La macelleria della Diaz, conseguenza anche della militarizzazione delle forze dell’ordine di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze, fiaccò il movimento. Ma forse c’erano anche debolezze interne, di pensiero, questioni più profonde con le quali oggi potremmo e dovremmo fare i conti. Anche sotto questo riguardo l’appassionata e rigorosa disamina di Non c’è pace offre molti spunti di approfondimento, in un confronto dialettico con una pluralità di voci che permettono di ricostruire la storia, la crisi e l’evoluzione del movimento pacifista in Italia. «All’inizio degli anni Duemila, periodo d’oro del pacifismo, ha preso avvio un movimento strutturato di massa con numeri significativi che teneva insieme tante anime diverse», ricostruisce Romina Perni, assegnista di ricerca di scienze politiche all’Università di Perugia e autrice del volume insieme a Vicaretti (giornalista di Rai news e conduttore di Agorà estate su Rai3). «Da lì è partito il nostro lavoro di ricerca. Quelli erano gli anni non solo delle grandi manifestazioni che le cronache ancora ricordano, ma anche di un lavoro costante di attivismo quotidiano, che merita di essere studiato».

Un futuro di pace pareva realizzabile in quel momento?
La sensazione era che fossimo in un momento di svolta. Sembrava che la parola pace e un certo modo di intendere i rapporti internazionali potessero dar vita a un progetto politico diverso. C’erano tante aspettative. Dopo diversi anni oggi notiamo una realtà molto diversa, non ci sono più le mobilitazioni di una volta e non si parla proprio più del tema della pace.

Per quale motivo?
Ci siamo interrogati a lungo su questo punto. A bene vedere è stata una metamorfosi. Non possiamo dire che non esista più un movimento contro la guerra o per la pace. Esistono tante associazioni, ma hanno un ruolo molto diverso rispetto ad allora quando la loro attività andava di pari passo alla critica di un certo modello economico.

Costruire la pace, come dite nel libro, è un movimento attivo che va anche oltre il ripudio della guerra sancito dall’articolo 11 della Carta.
Il tema è necessariamente più ampio. Quando si parla di pace si parla di lotta alle disuguaglianze, di lotta alla povertà, ecc… temi che stavano insieme e che in quel momento sembrava si potessero saldare. Nel frattempo il mondo è cambiato, c’è stata la crisi economica, la lotta al terrorismo, c’è stato soprattutto un collasso di partecipazione democratica. Per cercare di analizzare questi aspetti, in Non c’è pace, abbiamo intervistato numerosi attivisti, politologi, studiosi.

Le loro voci risuonano nella trama del libro, accanto a quelle di protagonisti assoluti del movimento per la pace come Capitini. Ma lui, Bobbio ed altri sono rimasti grandi intellettuali isolati?
La cultura politica del pacifismo è fatta da grandi figure. Aldo Capitini, ad esempio, ha incarnato quel pensiero sul piano educativo e nel lavoro con le istituzioni. Forse anche per ragioni di contesto storico non ha avuto lo spazio che meritava e poi non c’è stato un ricambio generazionale.

Ha contato anche il fatto che il centrosinistra, su molti temi, si sia spostato sul terreno della destra? Già nel 1999 il governo D’Alema aveva varato la missione in Kosovo, partecipando al bombardamento di Belgrado…
Personalità politiche che avrebbero dovuto tradurre in politica quelle istanze pacifiste, per prendere delle decisioni nelle sedi istituzionali, di fatto non l’hanno fatto, così si è creato un corto circuito. Negli anni Duemila c’era la grande mobilitazione ma poi venivano finanziate missioni che venivano chiamate di pace, ma era solo un modo per non usare la parola guerra.

Per approfondire le questioni di pensiero: pacifismo e non violenza sono due concetti che non coincidono completamente?
La non violenza è il portato più radicale del pacifismo. Ha a che vedere con un modo alternativo di rapportarsi fra persone. Porsi in un’ottica non violenta obbliga a rivedere alcuni paradigmi che sono quelli dell’imposizione e del dominio. È un modo diverso di intendere il modo di stare al mondo, che comincia dalla dimensione personale, da quella apparentemente più piccola, ma che potrebbe avere un esito enorme. Il cambiamento inizia anche da un modo di rapportarsi non violento nell’incontro con l’altro, sconosciuto. Questo può essere un modo molto bello di affrontare il tema per esempio dell’emigrazione con tutto ciò che vi è legato.

Pensiamo anche a quanto sarebbe rivoluzionario se le forze dell’ordine avessero una formazione improntata alla non violenza…
Quando parliamo di pacifismo ci sono vari livelli da considerare, quello teorico è importante, ma anche quello dell’educazione lo è, così come quello istituzionale. Era il senso del movimento iniziale: tenere insieme l’ambito dell’educazione, della scuola, della cooperazione internazionale. Se agisci su quel piano poi hai su tutta una serie di ricadute importanti.

Il pacifismo fa riferimento a valori umani universali, scrivete nel libro. Dunque necessita di una nuova antropologia, di un nuovo pensiero sulla realtà umana, diverso dalla visione hobbesiana che la descrive come naturalmente aggressiva e violenta?
Sì, sicuramente, lo sforzo della cultura pacifista è stato anche questo: offrire un nuovo modello anche da un punto di vista antropologico. Anche se poi non è stata percepita come una visione compiuta e questo è stato un punto di debolezza. Eppure semi in questo senso se ne trovano molti. Pensiamo per esempio a ciò che diceva Ernst Bloch. Ogni individuo può attingere all’energia che trova dentro di sé che non è legata alla violenza; rivolgerla verso l’altro diventa anche un potere di agire insieme. Ci sarebbe da fare anche una riflessione sul potere che non è necessariamente legato alla violenza, seguendo Hannah Arendt. Il problema è che quello che vediamo in atto in molti ambiti è ben altro modello. Se guardiamo, per esempio, alle forze dell’ordine traspare un modello di dominio. La sfida era ed è pensare un altro modo di vedere le relazioni sociali, politiche. Ribadisco la cultura pacifista ha tante sfumature all’interno, i riferimenti possono essere tanti e diversi e si sarebbe potuta costruire una visione “altra” veramente compiuta, ma la curvatura della storia è andata da un’altra parte…

Romina Perni e Roberto Vicaretti presentano Non c’è pace (People edizioni) il 3 settembre, ore 18, a Colleferro, presso i giardini Placido Rizzotto di via Giotto, nel rispetto delle norme anti Covid. L’incontro è promosso dalla sezione Anpi di Colleferro “La Staffetta Partigiana” e Retuvasa (Rete per la Tutela della Valle del Sacco“. Oltre agli autori partecipano Amalia Perfetti, presidente Anpi Colleferro e Alberto Valleriani, presidente Retuvasa

L’intervista di Simona Maggiorelli a Romina Perni è tratta da Left del 31 luglio 2020

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