«Torna a lavare i piatti», era stato il commento di Alexander Lukashenko alla candidatura di Tikhanovskaya alle ultime elezioni presidenziali in Bielorussia. I risultati comunicati il 9 agosto dalla Commissione elettorale centrale (Cec) hanno decretato il proseguimento di un regime che dura ininterrottamente da 26 anni. Il “Papà”, come ama farsi chiamare, avrebbe raccolto l’80% dei voti. Una cifra inverosimile. La piattaforma Voice, creata da organizzazioni indipendenti in Bielorussia, ha calcolato in autonomia i risultati in 1.310 seggi elettorali, circa il 22%: ebbene, solamente in questi seggi, Tikhanovskaya ha ottenuto 471.709 voti su 588.619 totali. Il che vuol dire che la candidata, costretta poi a scappare in Estonia, avrebbe raccolto 116.910 nei rimanenti 4.457 seggi. «Una discrepanza altamente improbabile» che ha scatenato le proteste che vanno avanti ormai dal 16 agosto quando sono scese in piazza circa 200.000 persone per la più grande manifestazione di sempre in Bielorussia. Con il tempo la tensione è cresciuta, complici anche gli arresti di massa e le espulsioni arbitrarie dal Paese dei leader dell’opposizione. Non ultimo quella tentata l’8 settembre nei confronti di Maria Kolesnikova. Per cercare di delineare gli scenari che si possono aprire anche alla luce dei rapporti con l’Unione europea e la Russia, abbiamo incontrato Andrea Rigoni, già deputato Pd ed ex relatore dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa: contestualizzare la Bielorussia dal punto di vista storico e geopolitico è il primo passo per avere uno sguardo lucido sulla vicenda.
Per definire le relazioni tra Bielorussia e istituzioni europee Rigoni utilizza la fortunata metafora di un pendolo «che oscilla tra dialogo e chiusura in se stessi». In un rapporto del Parlamento europeo è d’altronde questa l’immagine che fuoriesce: interruzione della partnership nel 1997, la «speranza che la Bielorussia diventi parte della grande democrazia europea» espressa dal Consiglio europeo nel 2002. Nel 2006 imposizione di sanzioni nei confronti di alcuni ufficiali, tra cui lo stesso Lukashenko, per la scomparsa di oppositori politici. Riapertura nel 2008 e congelamento dei fondi nel 2012 in seguito alle elezioni contestate del 2010. Fino al rilascio delle misure restrittive nel 2016 e lo sviluppo di un “Human rights national plan” nel medesimo anno. Nel 2017, in un incontro con il presidente Lukashenko, quest’ultimo aveva detto a Rigoni di voler perseguire un dialogo con le istituzioni europee. Le stesse che oggi invece accusa di voler destabilizzare il Paese.
«Lukashenko è una persona astuta e determinata, un temporeggiatore che però non si rende conto dell’avanzare della storia», afferma l’ex relatore. Un esempio, oltre che nella sua parvenza di «reperto di archeologia sovietica» (come l’ha raccontato M. Palma a Left) lo possiamo forse trovare nella gestione della pandemia Covid-19, definita più volte dal presidente una «psicosi collettiva». Quando un uomo che pesava 137 chili venne a mancare causa Covid, affermò che «in ogni caso non puoi vivere in quel modo».
In un Paese che si regge sulla nazionalizzazione economica, in cui lo stato garantisce un salario minimo a qualsiasi cittadino – «tra i 120 e 150 dollari al mese a quanto mi risultava» ci spiega Rigoni -, la crisi sanitaria ha avuto ripercussioni devastanti.
Dunque, crisi economica e brogli elettorali sono stati la goccia che ha fatto traboccare un vaso vecchio più di vent’anni, ricolmo di soprusi, inganni e soppressione dei diritti. Dalle prime testimonianze di cittadini arrestati emerge un quadro surreale per quanto cupo, tale da infiammare ulteriormente le proteste, guidate per lo più dalla componente femminile del paese. A migliaia, vestite di bianco, distribuendo fiori e inneggiando il simbolo della vittoria, continuano a manifestare per le strade di Minsk. Per Rigoni, la caratterizzazione femminile non è una sorpresa: «nelle mie visite alle università per diffondere i valori del Consiglio la stragrande maggioranza degli studenti era composta da donne, che studiano con profitto e ottengono risultati concreti. C’è una classe giovanile molto istruita, ed è su di loro che dobbiamo puntare per diffondere certi valori». In che modo? «Alcuni progetti Ue e del Consiglio, hanno puntato, forse non abbastanza, su una sensibilizzazione dei giovani: abbiamo aperto collaborazioni con le università, fornito sostegno diretto alle istituzioni culturali e soprattutto semplificato l’ottenimento dei visti, favorendo una mobilità fondamentale per aprire gli orizzonti dei giovani bielorussi». Dunque, se da una parte i valori europei hanno raggiunto la componente giovanile e liberale della popolazione bielorussa, dall’altra persiste una mentalità conservatrice che pare inscalfibile da qualsivoglia tentativo di rinnovamento. Come due generi letterari che non trovano una formula di sintesi; l’Europa, che ha teorizzato i diritti, non riesce a trovare una formula, un romanzo in grado di raccontare la tradizione sovietica bielorussa. «Da una parte abbiamo fatto passi avanti, per quanto riguarda lo spoglio elettorale, che prima veniva fatto di spalle agli osservatori, e l’inclusione di due membri dell’opposizione e delle Ong nelle Commissioni politiche dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa; dall’altra, ciò non esclude il controllo sulle elezioni delle autorità, che si esercita principalmente nell early voting (la settimana di elezioni, che va dal lunedì al sabato), o la possibilità dell’opposizione di esprimersi liberamente». In un Paese in cui vige ancora la pena di morte, l’ipotesi di sottostare alle decisioni della Corte europea dei diritti umani in quanto membro del Consiglio d’Europa, è forse inconcepibile. Ma, dice Rigoni, «se fosse sospesa con una moratoria de iure, e non de facto, permetterebbe un’ammissione temporanea alle assemblee che aprirebbe uno spiraglio di dialogo».
E poi c’è la Russia di Putin, o meglio del «fratello maggiore», come l’ha additato Lukashenko. Il rapporto tra i due paesi è strettissimo: l’import energetico bielorusso è per il 99% di provenienza russa, quello di armi del 96%, secondo i dati elaborati da Ispi (Istituto di politica internazionale). Ancora, secondo il Financial Times, gli scambi commerciali con il Cremlino contribuiscono al 3% del Pil bielorusso, e tra i due Paesi non esiste sostanzialmente frontiera. «A Minsk c’è un diffuso sentimento filorusso-aggiunge Rigoni-il bielorusso come lingua è meno parlato del russo». Tuttavia i rapporti sono piuttosto ondivaghi, e la pressione di un paese di più di 220 milioni abitanti su uno che ne conta meno della sola Mosca non può che essere asfissiante.
Nel corso degli anni si sono succeduti poi vari screzi tra i due presidenti: il mancato riconoscimento da parte di Lukshenko dell’annessione alla Crimea, visioni differenti all’interno dell’Unione economica eurasiatica. E patti traditi. «Mentre nel 2019 Putin stava spingendo per il referendum su una riforma costituzionale che gli avrebbe permesso di allungare i termini del suo mandato, il presidente russo chiese a Lukashenko di procedere all’unificazione sotto il pretesto di un accordo siglato nel 1999». Quest’ultimo in un primo momento sembrò accettare, ma poi la tirò per le lunghe e al contrario riallacciò i rapporti con gli Stati uniti, aprendo le ambasciate nelle rispettive capitali.
Arriviamo dunque alle settimane precedenti alle elezioni, caratterizzate dall’ormai collaudata prassi dell’arresto di oppositori politici. Tra questi, uno in particolare ha fatto scalpore: Viktor Barbarika, direttore per venti anni della Belgazprombank, principale banca bielorussa e le cui azioni appartengono per il 99% alla Gazprom, gigante energetico russo. «A quanto mi risulta aveva ottenuto circa 900.000 firme, ben più delle 100.000 necessarie a candidarsi» specifica Rigoni. L’accusa ufficiale, rigettata dalle autorità russe e dall’Europa, è di corruzione e finanziamenti esterni. Andando più avanti, il 31 luglio la Bbc dà la notizia dell’arresto da parte dei servizi del Kgb bielorusso di 33 membri dell’associazione russa Wagner, con l’accusa di essere mercenari e di voler interferire nelle elezioni. «La frizione tra i due paesi è evidente», commenta l’ex relatore, «come è evidente che c’è stato un condizionamento nelle elezioni da parte di Putin, che adesso invece assicura appoggio a Lukashenko. Come in una qualsiasi “partita” geopolitica, si mandano segnali, avvertimenti, per poi rassicurare e professare amicizia e sostegno».
In conclusione, una soluzione al conflitto in Bielorussia, Paese, vale la pena ricordare, con il più basso standard di democrazia in Europa, è ancora lontana. «Quel che è certo è che né il Consiglio d’Europa né l’Unione europea stanno facendo abbastanza – rileva Rigoni – e che una risposta che non tenga conto della Russia e della sua volontà, sempre difficile da intuire al netto della generica volontà di annessione, non è fattibile». Un percorso comune dunque, con tatto e sensibilità. «Altrimenti, il pendolo si ferma irrimediabilmente».