È il primo treno della mattina, sul binario più lontano con il marciapiede più dentro la notte che dentro la stazione. Non è nemmeno la mattina come viene comunemente pensata, vissuta, raccontata, è la coda della notte, manca intorno qualsiasi segnale di risveglio, ci sono solo luci del sonno, i rumori consueti del buio, dell’alba nemmeno parlarne, i passeggeri di quel treno sembrano provare senso di colpa nell’attraversare la città in quell’ora innaturale, camminano certi di non incrociare nessuno, si grattano e si stropicciano come se fossero soli perché sono soli, una fila indiana di soli che hanno stretto un patto: qualcuno deve avere notato che a quell’ora non ci siano ancora le energie per le cortesie e insieme hanno deciso di limitarsi all’igiene minima, a un buongiorno solo se scappa e di evitare di incespicare uno sull’altro. Nel primo treno della mattina, quello che porta nello stomaco del centro produttivo, i passeggeri sprofondano nei sedili lasciandosi prendere da uno svenimento vigile e morsicano ogni minuto di inedia per risputarlo come riposo, ci provano tutti i giorni ma non riescono mai. Non ho potuto frequentare molto i treni della mattina, anzi nemmeno quelli del pomeriggio, vivere sotto scorta mi ha disinfettato dalla quotidianità rinchiuso in un bolla di vetro e mentre mi proteggevo non mi accorgevo di prosciugarmi. Quando ho deciso di riannodare il filo con la normalità salire sui vagoni che portano nel ventre della chioccia del fatturato italiano mi ha fatto sentire ignorante e stupido, tagliato fuori dal mondo che mi illudevo di raccontare. Non mi colpisce l’odore di guarnizione e nemmeno il caldo da falò di pneumatici, mi colpiscono le mani. Le mani dei pendolari primi stringono gli zaini come per strozzarli, passano tra i capelli come spazzole senza denti, sfogliano telefoni, si addormentano schiacciate tra le teste e i finestrini, penzolano mentre decidono dove sedersi e poi finalmente  svengono in grembo. Aleggia su quel treno un sentimento che non esiste nel vocabolario, un andare da qualche parte a fare qualcosa senza nessun intento, una schiera di gente che non si sposta ma si fa spostare, un’insoddisfazione generale nell’avere avuto poco tempo, troppo poco tempo, tra il viaggio di ritorno che è stato ieri sera tardi e questa ripartenza che è partita troppo presto, un’umanità compressa a vivere nelle pause del lavoro straziata dalla stanchezza che intorbidisce il tempo, quello che sarebbe libero e invece non è libero dalla stanchezza distrutta. Se il sonno sveglio avesse una forma, se il sonno sveglio fosse un quadro, sarebbe quella gente slogata sui sedili come gli orologi molli di Dalì. La colonna sonora è l’impiastricciamento dei movimenti e delle parole, è il silenzio greve che diventa cappa.  (da Disperanza, il mio ultimo libro, in libreria da ieri)

È il primo treno della mattina, sul binario più lontano con il marciapiede più dentro la notte che dentro la stazione. Non è nemmeno la mattina come viene comunemente pensata, vissuta, raccontata, è la coda della notte, manca intorno qualsiasi segnale di risveglio, ci sono solo luci del sonno, i rumori consueti del buio, dell’alba nemmeno parlarne, i passeggeri di quel treno sembrano provare senso di colpa nell’attraversare la città in quell’ora innaturale, camminano certi di non incrociare nessuno, si grattano e si stropicciano come se fossero soli perché sono soli, una fila indiana di soli che hanno stretto un patto: qualcuno deve avere notato che a quell’ora non ci siano ancora le energie per le cortesie e insieme hanno deciso di limitarsi all’igiene minima, a un buongiorno solo se scappa e di evitare di incespicare uno sull’altro. Nel primo treno della mattina, quello che porta nello stomaco del centro produttivo, i passeggeri sprofondano nei sedili lasciandosi prendere da uno svenimento vigile e morsicano ogni minuto di inedia per risputarlo come riposo, ci provano tutti i giorni ma non riescono mai.

Non ho potuto frequentare molto i treni della mattina, anzi nemmeno quelli del pomeriggio, vivere sotto scorta mi ha disinfettato dalla quotidianità rinchiuso in un bolla di vetro e mentre mi proteggevo non mi accorgevo di prosciugarmi. Quando ho deciso di riannodare il filo con la normalità salire sui vagoni che portano nel ventre della chioccia del fatturato italiano mi ha fatto sentire ignorante e stupido, tagliato fuori dal mondo che mi illudevo di raccontare. Non mi colpisce l’odore di guarnizione e nemmeno il caldo da falò di pneumatici, mi colpiscono le mani. Le mani dei pendolari primi stringono gli zaini come per strozzarli, passano tra i capelli come spazzole senza denti, sfogliano telefoni, si addormentano schiacciate tra le teste e i finestrini, penzolano mentre decidono dove sedersi e poi finalmente  svengono in grembo. Aleggia su quel treno un sentimento che non esiste nel vocabolario, un andare da qualche parte a fare qualcosa senza nessun intento, una schiera di gente che non si sposta ma si fa spostare, un’insoddisfazione generale nell’avere avuto poco tempo, troppo poco tempo, tra il viaggio di ritorno che è stato ieri sera tardi e questa ripartenza che è partita troppo presto, un’umanità compressa a vivere nelle pause del lavoro straziata dalla stanchezza che intorbidisce il tempo, quello che sarebbe libero e invece non è libero dalla stanchezza distrutta. Se il sonno sveglio avesse una forma, se il sonno sveglio fosse un quadro, sarebbe quella gente slogata sui sedili come gli orologi molli di Dalì. La colonna sonora è l’impiastricciamento dei movimenti e delle parole, è il silenzio greve che diventa cappa. 

(da Disperanza, il mio ultimo libro, in libreria da ieri)

Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.