«Stamattina appena ho visto uno che parlava, dopo un secondo l’ho mandato a casa, non è che gli ho dato la seconda possibilità. “Vai a casa!”. Ed appena vedo uno con il cellulare io lo mando a casa! È il terrore di rispettare le regole!». «Il concetto da dirgli è proprio questo, se troviamo una fragola fatta male se ne vanno a fare in culo, non è che c’è il perdono, non so se mi spiego». «Questo deve essere l’atteggiamento perché con loro devi lavorare in maniera tribale, come lavorano loro, tu devi fare il maschio dominante, è quello il concetto». L’autore di queste frasi, un distillato di machismo, xenofobia, classismo e atteggiamento paraschiavista, non è un caporale attivo nel Meridione, come si potrebbe dedurre seguendo un facile stereotipo sempre meno aderente alla realtà. Bensì il giovane rampollo di una famiglia nobiliare. Classe 1988, ex bocconiano. Fondatore di una “avveniristica” start-up lombarda che coltiva e vende frutti di bosco provenienti da agricoltura biologica a km zero, realizzata con energie rinnovabili.
Nel 2013 la Coldiretti Lombardia ha premiato il progetto col riconoscimento Oscar Green, in quanto azienda agricola innovativa ed attenta alla sostenibilità ambientale. Nel 2014 il medesimo premio gli è stato assegnato dalla Coldiretti addirittura a livello nazionale. L’immagine che l’impresa lasciava trasparire all’esterno, stando alle intercettazioni, era evidentemente molto diversa rispetto alla realtà. Secondo la procura di Milano, che le ha disposte, la start-up stipulava contratti irregolari coi propri braccianti – circa un centinaio, perlopiù stranieri provenienti dall’Africa subsahariana -, li pagava meno rispetto al contratto di categoria e manteneva condizioni di lavoro disumane. Per questo lo scorso agosto ha disposto il sequestro dei beni dell’impresa, mentre sette persone tra amministratori e dipendenti risultano indagate.
Questo episodio emblematico illustra una verità nota a chi da anni indaga e racconta la vicenda dello sfruttamento lavorativo in agricoltura: vessazioni ai limiti dello schiavismo e intermediazione illecita di manodopera agricola sono fenomeni diffusi non solo al Sud ma sempre più anche al Centro e al Nord Italia, e si replicano pure in realtà all’apparenza insospettabili, magari lontane da un contesto mafioso, e magari imbellettate dalla retorica green e bio. Mentre il sistema di norme e controlli con cui lo Stato dovrebbe individuare e reprimere questo tipo di reati, pur essendosi parzialmente irrobustito negli ultimi anni, è ancora palesemente insufficiente.
Il caporalato e il lavoro irregolare nelle campagne del Belpaese costituiscono un giro d’affari pari a 4,8 miliardi di euro, che grava su 400/430mila lavoratori agricoli (come indica l’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil). Come abbiamo detto, si tratta di un fenomeno non ascrivibile tout court alla criminalità organizzata di stampo mafioso, ma rappresenta pur sempre una voce significativa dei bilanci delle cosche. A farne le spese sono i braccianti, che sempre più spesso sono originari di Paesi esteri. Se nel 2008 gli operai agricoli italiani erano 768.843 e gli stranieri 268.273, nel 2017 i primi erano 695.613 mentre i secondi 364.385 (elaborazione Crea su dati Inps). E nella conta, ovviamente, non sono considerati gli stranieri privi di documenti, che di conseguenza sono sprovvisti pure di un contratto regolare. I più vulnerabili ed esposti a forme di ricatto da parte dei datori di lavoro, assieme a coloro che posseggono un titolo di soggiorno temporaneo rinnovabile solo a patto che si percepisca un reddito. I teatri più celebri di questa tragedia sono i ghetti disseminati nella Penisola, e in particolare al Sud, dove i braccianti provano a sopravvivere in condizioni estreme.
Periodicamente bersagliati dalle telecamere dei tg in occasione dell’ennesima morte annunciata, di un incendio o di uno sgombero, il sipario mediatico su di essi si apre e chiude alla svelta. Il viaggio di Braccia rubate comincia proprio da qui, dal racconto in presa diretta di queste baraccopoli (nel primo capitolo, che introduce i temi caldi del libro, e nel secondo, una selezione di reportage). In questi luoghi le condizioni di vita sono ulteriormente peggiorate durante il confinamento disposto dal governo italiano nella scorsa primavera in piena emergenza coronavirus. In quel momento, i braccianti senza documenti temevano di allontanarsi dalle proprie dimore di fortuna a causa dei controlli intensificati da parte delle forze dell’ordine sulla circolazione delle persone mentre le aziende, per lo stesso motivo, evitavano di reclutarli tramite i caporali. Per questo motivo, e per permettere alle imprese agricole di sopperire alla forte diminuzione di manodopera stagionale a causa della difficoltà nel raggiungere l’Italia dei braccianti stranieri ed in particolare di quelli provenienti dall’Est Europa, la ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova ha predisposto una sanatoria per lavoratori agricoli (e badanti), varata lo scorso maggio col decreto Rilancio.
Un provvedimento assai discusso, che elargiva diritti assai limitati ai beneficiari e – a causa della ratio con cui è stato elaborato – si è rivelato un vero e proprio flop, che in alcuni casi ha persino esposto ad ulteriori ricatti i lavoratori che cercavano di mettersi in regola (ne parliamo nel terzo capitolo). Certo è che, per cogliere pienamente i motivi del fallimento dello Stato italiano nella lotta al caporalato, occorre andare ben più indietro nel tempo rispetto a questa primavera. Bisogna risalire almeno al 2016, quando veniva approvata una legge storica, la n.199 del 2016, conosciuta ai più come legge «anti-caporalato». La norma ha ridefinito il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro rendendone più facile l’individuazione, ha introdotto la responsabilità anche del datore di lavoro e non più solo del caporale, e ha previsto infine la possibilità di commissariamento della azienda. La 199, indubbiamente, ha segnato una svolta positiva nel contrasto al caporalato: il suo impianto repressivo funziona, e ha dato risultati. Nell’arco del 2019 le indagini su questo fronte hanno portato alla denuncia di 570 persone da parte del Comando Carabinieri per la tutela del lavoro, in netto incremento rispetto alle 299 denunce del 2018 (+190%).
A fronte di una cronica scarsità di risorse a disposizione dell’Ispettorato, sono dunque cresciuti gli indici di efficacia dell’attività di vigilanza. I magistrati, adesso, hanno in mano armi più efficaci per portare avanti la propria attività, sia nella fase inquirente che nell’ambito dei processi. Ma è la parte della legge 199 dedicata alla prevenzione a fare acqua da tutte le parti. Voluta dall’allora premier Matteo Renzi e dal ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, l’«anti-caporalato» è infatti dotata di una pars construens, che sarebbe dovuta intervenire sugli squilibri della filiera produttiva per promuovere l’agricoltura sana. Questa parte della norma è restata in gran parte lettera morta, senza considerare le numerose e paradossali contraddizioni che la rendono in sé piuttosto inefficace a priori e bisognosa di una radicale revisione. Un’esigenza che il successore di Martina, il leghista Gian Marco Centinaio, non ha minimamente avvertito. Per il governo giallonero, d’altronde i ghetti erano una questione di ordine pubblico, da risolvere non con la tutela dei diritti di chi è costretto a viverci ma con le ruspe, mentre la legge anti-caporalato era qualcosa da modificare, magari indietreggiando rispetto a norme viste come troppo stringenti per le imprese (ripercorriamo la storia recente della lotta al caporalato nel quarto capitolo).
Alla fine, per fortuna, il Conte I ha evitato di sfregiare la legge 199. Ma di certo non ha alzato l’asticella dei diritti nelle campagne italiane, e sul tavolo del governo attuale, oggi, restano aperti numerosi problemi. In sintesi, per riassumere le urgenze più grandi nella lotta allo sfruttamento del lavoro in agricoltura, possiamo citare alcuni temi specifici, e poi una questione strutturale ed inaggirabile. Il vero elefante nel corridoio. I punti sono: documenti, alloggi, trasporti, intermediazione legale, salari. Servono titoli di soggiorno e case per restituire dignità (ma anche potere contrattuale nei confronti delle imprese) a chi vive nei ghetti, un sistema di trasporto pubblico che permetta ai lavoratori di non doversi più affidare ai pulmini dei caporali, un sistema valido di incrocio tra domanda e offerta di lavoro che sopperisca allo sfacelo seguito all’abolizione del collocamento pubblico in agricoltura e, infine, la revisione del contratto agricolo nella parte che permette al datore di lavoro di conteggiare le giornate a fine mese, un meccanismo facilmente eludibile che genera lavoro “grigio”, per cui braccianti regolarmente assunti percepiscono in realtà un “salario di piazza” minore di quello ufficiale, o sono pagati “a cottimo”.
Ebbene, tutte questi accorgimenti rischiano comunque di rappresentare un semplice palliativo se non si interviene sulla struttura economica della filiera agroalimentare italiana, ed in particolare su chi la fa da padrone, i giganti della Grande distribuzione organizzata (Gdo). Si tratta dei supermercati dove ogni giorno andiamo a fare la spesa, che continuano a dare le carte agli altri giocatori: imprese agricole, fornitori, industria alimentare. Imponendo dall’alto i suoi prezzi e così (più o meno direttamente) finendo con l’incidere sul costo del lavoro dei braccianti nei campi. Con strategie in bilico tra il legale e l’illegale. Avete mai sentito parlare, ad esempio, di «Sconti logistici», «premi finanziari», «esposizione preferenziale», «contributo per nuove aperture»? Scoprirete di cosa si tratta proseguendo la lettura (ne parliamo nel quinto ed ultimo capitolo). È anche attraverso questi strumenti poco conosciuti che le insegne di ipermercati, supermercati e discount, cresciute fino a catalizzare in Italia il 72% degli acquisti alimentari, governano il settore, occupando una posizione di strapotere nei confronti dell’industria e dell’agricoltura, la cui frammentazione – specie in alcune zone del Paese più fragili – si traduce in un minor potere contrattuale. Così, i grossisti e l’industria della trasformazione alimentare e il mondo agricolo sono “obbligati” a ridurre all’osso ogni costo. In questa operazione, i soggetti più deboli sono i lavoratori. L’ultimo anello della filiera. Quelli che pagano il prezzo più alto. Quelli più facile da spremere.
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