Per ricordare un grande protagonista della Resistenza che ci ha lasciato, pubblichiamo una sua intervista del 2020. In cui racconta una straordinaria storia personale e collettiva di lotta al fascismo. E invita i giovani a «non dare per scontata la Costituzione e i suoi valori democratici»

«Provenivo da una famiglia di origine ebraica, durante gli anni dell’adolescenza per fortuna – non avendo fatto il liceo – non ero stato assorbito dal regime e dalla sua propaganda manipolatoria», racconta il partigiano Mario Fiorentini che il 7 novembre compie 102 anni. E ci immergiamo subito nella sua storia.
Quando e perché il giovane Mario Fiorentini, nome di battaglia Giovanni, decise di entrare nella Resistenza e di far parte dei Gap?
I fatti avvennero in modo molto precipitoso e ci trovammo in guerra. Io ero stato chiamato al servizio militare, ma una enterocolite mi aveva tenuto mesi a letto, altrimenti mi avrebbero spedito in Africa. La caduta del regime l’8 settembre 1943, risvegliò molte coscienze dal torpore imposto con la forza dal fascismo: quell’inevitabile indottrinamento dei giovani, era un atto deliberato per piegarne la coscienza ai voleri del regime. Dopo l’8 settembre crebbe la consapevolezza della necessità di agire, di non essere complici, anche sfidando le imposizioni dovute allo stato di guerra. Vivevamo in un clima di pericolo continuo: cercarono di portare via i miei genitori per deportarli ad Auschwitz e solo l’eroismo di mia madre salvò mio padre da morte certa, era la dimostrazione che dovevamo combattere per riconquistare una nuova dignità, una presa di coscienza personale della necessità di ribellarsi, non solo alle ingiustizie contro noi ebrei, ma soprattutto contro la barbarie della guerra in cui ci avevano trascinato con l’inganno.

Lo storico Claudio Pavone ha scritto che la Resistenza fu: guerra civile, guerra di liberazione e guerra di classe; secondo lei sono valide tutte e tre le interpretazioni?
Sì certo, soprattutto fu una guerra di liberazione da un regime oppressivo le cui astute menzogne, diffuse tramite la pervadente propaganda di regime, con la crisi successiva agli anni di guerra, mostrarono tutte le proprie incoerenze e fragilità e misero in luce gli inganni abilmente nascosti al popolo.

Come si viveva e si moriva a Roma, durante i nove mesi dell’occupazione, sotto i bombardamenti, e perché i romani odiavano così tanto i tedeschi?
Quando l’esercito nazista entrò a Roma, sfilarono silenziosamente nella città; io e Lucia, il giorno del loro arrivo in via Zucchelli, li vedemmo entrare quasi solenni, minacciosi e determinati, mi ricordo che dissi: “Siamo in un cul de sac, siamo in trappola, poiché i rischi che correvamo, avendo questo temibile nemico dentro casa”. Era un pericolo tangibile da cui non si poteva più scappare. Sapevamo che finire nelle loro mani equivaleva a essere torturati e uccisi, mi ricordo ad esempio un giorno, io e Trombadori che era il mio comandante, eravamo in un appartamento in via Giulia dove, in clandestinità, alcuni artificieri che facevano parte della Resistenza, confezionavano bombe rudimentali e altre armi, con cui avremmo potuto attaccare e difenderci dai nazisti. Quel giorno uscimmo giusto in tempo da quello stabile, dove, forse per colpa di qualche delatore, i nostri compagni vennero catturati e portati via. Sapemmo in seguito che, dopo essere stati torturati, vennero uccisi dai fascisti rimasti nella Capitale.

Questione di minuti…
Per puro caso c’eravamo salvati: aleggiava questo pericolo incombente e oppressivo, per puro caso potevamo venir catturati, torturati e uccisi. Noi eravamo poco e male armati, anche perché, fino ai momenti difficili dello sbarco di Anzio non era visto bene il fornire di armi delle forze autoctone di Resistenza con fede politica comunista; poi la necessità ci fece superare questa iniziale diffidenza. La città era divisa in zone, per fortuna la popolazione era dalla nostra parte e ci dimostrò solidarietà in molti episodi; se li avessimo avuta contro, molti di noi sarebbero stati catturati. Combattevamo una guerra impari con un nemico armato fino ai denti e educato alla crudeltà spietata e marziale della disciplina militare nazista, dovevamo, seguendo le indicazioni anche degli alleati, cercare di colpire duramente per fiaccare le retrovie tedesche che spesso transitavano a Roma, dopo periodi al fronte impegnati nella guerra contro le forze alleate.
Io credo che la città, ormai indebolita e terrorizzata dalle bombe, consapevole del cambio repentino rispetto alle bugie del regime fascista, non tollerasse più questi soldati che spadroneggiavano per Roma, ci fu una presa di coscienza, alcuni romani decidessero di ribellarsi e combattere nemico.

Come ha conosciuto Lucia Ottobrini, l’amore della sua vita?
Con Lucia ci siamo conosciuti a un concerto di musica classica, che durante il fascismo erano tenuti a Roma all’aperto. Lei e la sorella Delia parlavano francese, ci siamo conosciuti che era giovanissima per un colpo del destino. Lei ricordava sempre che, dopo avermi conosciuto pensò «questo è il mio ragazzo» e infatti quel nostro amore, nato fra un conflitto e momenti di paura, affrontati con un coraggio incredibile, ci ha poi legato per tutta la vita avendo vissuto una guerra terribile e la morte di un figlio ventunenne.

Siete stati insieme più di 72 anni…
Lucia è stata la persona più importante della mia vita, e mi ha permesso, non solo di combattere e rimanere salvo in una guerra straziante e terribile come la Resistenza, ma anche dopo, mi ha permesso di diventare l’uomo e il matematico che sono; credo di dovere a lei e ai suoi sacrifici tutto quello che ho ottenuto nella vita e soprattutto la consapevolezza che l’umanità che era nel suo cuore, ti permettono di restare umani e veri anche dopo aver affrontato tutte le tragicità, l’alsaziana che amava i tedeschi e combatteva i nazisti. «La guerra è morte» diceva sempre, perché per lei, cattolica, era impensabile per sopravvivere, dover combattere e difendersi da altri esseri umani, uomini che avevano scelto di essere soldati, che obbediscono agli ordini e forse anche per questo lei non amava parlare delle azioni che abbiamo dovuto compiere in quegli anni terribili.

Come ricorda Rosario Bentivegna (Paolo) e Carla Capponi (Elena) suoi compagni dei Gap?
Di Bentivegna potrei dire tanto: all’inizio era osteggiato da alcuni nostri compagni in quanto trotskista, poi si è distinto in tante azioni insieme a noi, anche quella dall’esito tragico di via Rasella: in quell’azione, io ero contrario all’utilizzo del carretto e di quella quantità di esplosivo, pensavamo più a un’ azione dimostrativa, il comando invece insistette a procedere con quelle modalità, poi le bombe a mano legate alle cinture del battaglione Bozen ampliarono notevolmente l’esplosione. Si è parlato tanto di quell’azione e dei suoi effetti, col rastrellamento e l’eccidio delle Ardeatine; spesso s’è voluto far apparire una azione legittima, contro un nemico implacabile e determinato come un’azione di cui noi partigiani non volevamo prenderci la responsabilità; la verità fu che il comando tedesco dovette, per ordine di Hitler, compiere l’eccidio di nascosto, come reazione alle perdite di soldati tedeschi, con la famosa proporzione 10 italiani per ogni tedesco, compiendo un arbitrio e cercando poi di dipingerci come dei vigliacchi che non si erano presentati, mentre fu un’ azione premeditata da parte loro, fatta in segreto per evitare una sommossa popolare.

E Carla Capponi?
Lei entrò nella Resistenza in seguito a delle riunioni tenute in casa sua: veniva da una famiglia borghese antifascista, loro vivevano vicino a piazza Venezia e in quella casa spesso si discuteva animatamente fino a tarda notte. Anche lei partecipò a molte azioni e fu molto coraggiosa, in una di queste, ci si erano inceppate le pistole e lei salvò la vita a me e Lucia colpendo a morte un ufficiale nazista; questo è solo un piccolo esempio di come, entrando nella Resistenza, le nostre vite erano legate ai nostri compagni e al proteggerci l’un l’altro.

L’azione di via Rasella fu atto di guerra riconosciuto da tutti i tribunali, ciò nonostante è stata oggetto di polemiche, soprattutto da certa stampa di destra che parla di responsabilità dei Gap nell’eccidio delle Fosse Ardeatine; vuole confermare ai nostri lettori quanto è già stato appurato sulla questione, perché ancora oggi molti parlano di manifesti e di inviti a presentarsi al Comando tedesco?
La Resistenza e tutte le attività del Cln evitarono al Paese un numero ben maggiore di bombardamenti con molte più vittime fra i civili, quando l’esercito alleato risalì dal Meridione e poi con lo sbarco di Anzio. Il fatto di avere il nemico tedesco impegnato sia sul fronte alleato e anche in attività di contrasto alla guerriglia urbana interna, risparmiò dai bombardamenti gran parte della popolazione civile: spesso di questo non si tiene conto; quelli che parlano di questi inviti nazisti, cadono in un tranello molto abile messo a punto dagli occupanti. Fu un’attività di abile propaganda, nata per screditare le nostre legittime azioni di guerra e farci passare per terroristi, incuranti delle conseguenze delle nostre azioni, non fu diramato nessun comunicato, perché si sarebbero presentati moltissimi parenti dei rastrellati. Sulla legittimità del diktat imposto dai nazisti, lanciato per scoraggiare qualsiasi nostra azione con la minaccia della repressione sanguinosa, penso che chi dà per scontata una tale imposizione abbia dei pregiudizi di fondo. Per noi che ci eravamo ribellati al regime e vedevamo questo nemico invasore crudele e implacabile, c’era il rischio tangibile di venir imprigionati, torturati e uccisi e quindi non potevamo accettare quel diktat, era una necessità combatterlo, per sopravvivere. Tutta l’operazione di ritorsione brutale venne fatta di nascosto soprattutto per motivi militari e cercava di scongiurare che quell’ordine sanguinario potesse far rivoltare l’intera città contro di loro.

La mancata Norimberga italiana, cioè la mancata condanna dei fascisti, responsabili di crimini di guerra, ha ostacolato il ripristino della democrazia?
Io sono stato insignito dal governo americano della medaglia Donovan, col grado di maggiore, come ufficiale coordinato dell’esercito americano di Liberazione per le numerose azioni soprattutto al Nord. Ma la Resistenza, che voleva ridare dignità alla nostra patria, non poteva cancellare l’errore dell’alleanza dei fascisti con i nazisti tedeschi. In seguito agli accordi di Parigi, l’Italia, come Paese sconfitto, avrebbe salvaguardato, sul piano legale e processuale, tutte le azioni compiute dai gruppi partigiani in guerra, in quanto ispirate alla collaborazione fra esercito di liberazione e alleati nel combattere i nazisti e liberarci dal fascismo. Questa risoluzione poneva però dei problemi sul piano pratico e anche politico. Innanzitutto occorreva creare un clima di riappacificazione e collaborazione nell’ottica di ricostruire un Paese distrutto da una guerra persa, e dovevamo ispirarci a quei valori di coesione sociale ed eguaglianza solidale, che erano stati manipolati dal corporativismo fascista sin dalle origini. I padri Costituenti avevano in mente il ripristino di tutti quei diritti che erano stati cancellati di fatto dal regime e che poi ispirarono le linee guida della nostra Costituzione .
In secondo luogo l’Italia aveva vissuto per vent’anni in un regime che aveva imposto uomini nei ruoli chiave della gestione del Paese e una epurazione tout court, sarebbe stata complicata e irrealizzabile.

Ritenne giusta l’amnistia voluta da Togliatti nel 1946?
Si è scelto, nella gestione della ricostruzione, di non guardare indietro e non cercare i colpevoli, eccezion fatta per le azioni più gravi, s’è cercato di credere alla buona fede che in futuro avrebbe animato le coscienze dei singoli e della collettività, tutti insieme per condividere pacificamente questa realtà nuova, non più sudditi di un regime, ma uniti per un bene comune: occorreva capire il cambiamento e Togliatti preferì cercare di mettere pace in un Paese dilaniato da una guerra civile, guardando al futuro e confidando che, tolte le storture del regime, la nostra nuova Repubblica avrebbe reso efficienti le nuove regole e più giusta la società. D’altronde gli ideali di progresso materiale, ispirati alle idee socialiste di evoluzione industriale di un Paese moderno, dovevano, col benessere materiale, creare le condizioni politiche per le scelte dei nuovi governi che dovevano guidare il Paese.

Lei è stato grande combattente ma anche un matematico di fama internazionale; quale importanza ha avuto questa scienza nella sua vita?
La matematica è stato l’inizio della mia terza vita dopo l’amore per la cultura, la frequentazione degli ambienti artistici italiani e la lotta di Resistenza fatta per salvaguardare la nostra patria. La mia nuova vita da matematico fu una vera avventura: devo a mia moglie Lucia, oltre che ai miei sforzi, il fatto di aver potuto studiare in quegli anni difficili, mentre lei si occupava della famiglia e lavorava. Ero uno studente lavoratore con famiglia, i maestri di quegli anni mi fecero scoprire un modo nuovo di vedere il mondo e la bellezza della logica matematica; mi sono inoltrato nel campo della geometria algebrica, venendo a conoscenza delle teorie matematiche allora all’avanguardia del gruppo dei Bourbaki e di Groethendiek. E ho impegnato tutta la mia vita, dal dopoguerra in poi, nello studio, scrivendo teoremi e incontrando professori e studenti impegnati nella comprensione di questa affascinante materia. “La serva padrona”, la definisco scherzando, poiché la logica che la sottende e i risultati puntuali che si cerca di ottenere permettono una visione più ampia e di intersezione con il pensiero umano. Viviamo in un’epoca di collaborazione e scambio di conoscenze e aver studiato e poi insegnato matematica mi ha permesso di vivere questo nuovo clima di collaborazione fruttifera anche fra Paesi, dopo gli anni bui del fascismo e dei suoi baroni universitari: è stata una fortuna poter incontrare e scambiare esperienze con tanti professori di studi matematici, in ambito internazionale, forse uno degli arricchimenti maggiori della mia vita.

Lo studio della storia e una corretta informazione, potrebbero contrastare questa sciagurata avanzata delle destre nel nostro Paese?
È molto difficile dirlo, probabilmente sì. Il regime democratico e la situazione internazionale hanno in sé gli anticorpi e le regole per contrastare questi populismi nazionalisti che stanno facendo proseliti, occorre avere delle chiavi di lettura della storia il più possibile complete e approfondite, le motivazioni che indussero un popolo a cedere progressivamente libertà, diritti e democrazia ad un regime fascista. L’Italia del tempo doveva scongiurare il rischio bolscevico, ma un filo che lega i totalitarismi europei del ’900 fu costituito da un insieme di fattori: innanzitutto aderirono alle dittature tutti quei Paesi in mano alle monarchie più retrive e belligeranti, le nazioni democraticamente meno sviluppate e dove un certo tipo di coscienza di classe e lo status quo erano più forti, inoltre sia i ceti militari in Russia, che i reduci in Italia, appartenenti ai Fasci di combattimento, furono fra i protagonisti di questi attacchi alla democrazia rappresentativa; poi ci furono la guerra civile in Spagna e le lotte fra socialisti e fascisti in Italia, in particolare l’inganno semantico operato dal regime con il Manifesto del fascismo, cercò di illudere il popolo che le istanze egalitarie collettiviste si sarebbero sposate con lo status quo dei ceti elevati. Questa menzogna veicolava un concetto usato ancora oggi dalla propaganda. Il nazionalismo pone l’individuo sempre nella difesa del suo passato, della sua identità, è una logica che guarda indietro. Se si pensa invece a figure come Giorgio Marincola, un partigiano di origine somala che ha combattuto per la liberazione dal fascismo, pagando con la vita, negli ultimi giorni di guerra, si capisce quanto siano universali le lotte per la libertà di tutti e lo sguardo al futuro.

Come possiamo avvicinare i ragazzi e le ragazze di oggi, ai valori resistenziali e della sinistra?
Innanzitutto occorrerebbe applicare la nostra Costituzione, i valori democratici che essa rappresenta e che spesso le nuove generazioni danno per scontata. Per questa nostra Carta sono morti molti compagni e compagne. Bisogna studiare la storia cancellando l’idea fasulla che il fascismo rappresenti l’anno zero del nostro Paese. L’Italia ha vissuto gli anni più bui, dopo le lotte risorgimentali e la guerra mondiale, sotto il fascismo; il sacrificio di Matteotti, di Gramsci e di tutti i partigiani torturati e uccisi dovrebbero far riflettere molto di più i giovani e magari avvicinarli a figure come quella di Calamandrei.

Oggi in molti si battono per l’ambiente, la pace, i diritti umani, contro le disuguaglianze, e il razzismo; sono questi i nuovi partigiani?
Le nuove sfide che ci attendono in questa crisi sono più complesse e impegnative che mai. La pandemia di oggi ha mostrato che una società deve coniugare solidarietà e rispetto delle regole, se vuole superare integramente gli sconvolgimenti di una crisi sanitaria. Nella crisi pandemica attuale, un regime dittatoriale sembra uscirne indenne con le condizioni sanitarie imposte; credo sia questo un segno tangibile dei rischi che corriamo, ancora una volta, come un secolo fa. La grande sfida delle democrazie occidentali oggi, è quella di non farsi accecare dalla falsa sicurezza di una dittatura, dal potere dell’uomo forte, ma di cercare una forma di sviluppo e cooperazione, che non porti le potenze mondiali al confronto militare per l’egemonia delle risorse materiali e dei mezzi di produzione.

L’articolo è stato pubblicato su Left del 16-22 ottobre 2020

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