L’intero sistema del patrimonio culturale italiano già prima della pandemia aveva mostrato una fragilità fuori controllo. E le soluzioni sinora enunciate, in ordine sparso, dai nostri decisori, non hanno delineato una strategia politica degna di questo nome

L’aggravarsi, non inaspettato, dell’epidemia a livello nazionale, ha tacitato le molte polemiche sui progressivi lockdown che avevano accompagnato la seconda ondata pandemica, e che, in ambito culturale, avevano interessato, da ultimi, musei, biblioteche e ogni luogo della cultura a partire dal 6 novembre, a breve distanza dalle chiusure di cinema e teatri.

Questa seconda sospensione si innesta su una situazione che, al contrario di altri settori, non aveva ancora neanche lontanamente recuperato una “normalità” in questi pochi mesi di riaperture. Fondato è quindi il timore che questa nuova cesura provochi danni irrimarginabili: i sussidi pur stabiliti anche in questo caso per molteplici categorie di operatori culturali potranno costituire un risarcimento indispensabile, ma insufficiente per quantità e durata, ancor più se si pensa che, ad esempio, i 165 milioni destinati a coprire i mancati incassi dei musei statali, sono andati in massima parte alle società private concessionarie dei servizi aggiuntivi (biglietterie in primis).

Come dimostrano i dati dei molti report internazionali, nazionali e locali, relativi ai mesi del primo lockdown, le chiusure avevano interessato il 90% delle strutture museali nel mondo (report Unesco), con perdite dei visitatori in media del 70%. Gravi le ricadute in ambito professionale con tagli del personale interno e soprattutto sugli operatori free-lance, non strutturati, in una parola i precari che, anche per quanto riguarda l’ambito italiano si contano in alcune migliaia (e il fatto che non se ne conosca l’esatta entità è il sintomo più evidente della loro “invisibilità” agli occhi dei decisori politici).

Le riaperture estive non hanno affatto ripristinato una situazione quo ante: le istituzioni museali hanno riaperto in ordine sparso, spesso con orari molto diversi dalla fase pre-Covid e per lo più ridotti. Su una ripartenza stentata ha senz’altro inciso il crollo del turismo internazionale (65 miliardi persi nel settore in Italia secondo i più recenti dati Federturismo), ma anche quel deficit endemico in termini di personale e risorse generali sul quale il fenomeno pandemico ha agito come un detonatore. Insomma, per molte convergenti ragioni, i nostri musei sono rimasti pressoché deserti tanto che, in molti casi, le riaperture sono ben presto diventate addirittura economicamente insostenibili.

Ciò che è avvenuto e sta avvenendo in questi mesi ribadisce, come era apparso del resto chiaro fin dal primo lockdown, che…

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L’autrice: Maria Pia Guermandi è archeologa e responsabile progetti europei presso l’Istituto beni culturali della Regione Emilia Romagna

L’articolo prosegue su Left del 27 novembre – 3 dicembre 2020

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