Progressisti da una parte e islamisti dall'altra. Il voto in ordine sparso della Lista araba unita su un disegno di legge relativo ai diritti civili mostra le forti differenze nello schieramento che aveva ottenuto un grande successo alle ultime elezioni

Dopo un grande successo elettorale ottenuto il 3 marzo scorso con oltre 15 seggi al Parlamento israeliano (la Knesset), l’unità della Lista araba unita – ad oggi il terzo schieramento politico israeliano in ordine di seggi e rappresentativo di quel 21% di cittadini arabi d’Israele -, dall’estate ha iniziato a scricchiolare. Lista multiforme che non si è mai dotata di una struttura partitica unica, essa è composta da numerose anime e attraversata da tensioni indotte da scelte etiche di fondo che sembrano riguardare i diritti civili, ma che in realtà sottendono visioni diverse sul ruolo della minoranza araba palestinese in Israele e sul proseguimento della lotta per la Palestina.

Le quattro anime della Lista unita – Hadash, il Fronte democratico per la libertà e l’uguaglianza, Balad, l’Alleanza democratica nazionale, Ta’al, il Movimento arabo per il rinnovamento e Ra’am, la Lista araba unita espressione del Ramo sud del movimento islamico arabo-israeliano – si sono unite per necessità politica, comprendendo che il loro elettorato voleva contare di più alle ultime elezioni, ma senza trovare una vera convergenza sugli obiettivi politici che la lista dovesse darsi. Così le anime politiche dei vari partiti e le loro rispettive leadership sono rimaste distinte e – in un processo che richiama da vicino la frammentazione e la debolezza della Sinistra italiana – sono potenzialmente più ostili le une alle altre che al nemico comune che dovrebbero fronteggiare, ovvero le varie destre israeliane – identificate con i partiti Likud e la Casa ebraica, prima Kadima – che con sfumature lievemente distinte governano Israele da oltre ventiquattro anni.

Pietra dello scandalo sono stati i diritti Lgbtq+ recentemente dibattuti in una importante seduta alla Knesset: quella sul disegno di legge iniziato da Meretz, il partito sionista di sinistra, mirata a proibire le “terapie di conversione” di gay, lesbiche e transgender operate da psicologi e autorità religiose, votato da un ampio arco trasversale di forze politiche ma fortemente osteggiato dal partito arabo di matrice islamista Ta’al (luglio 2020). La Lista unita ha dunque votato sulla mozione in ordine sparso, con Hadash a favore, i deputati nazionalisti astenuti e quelli islamisti apertamente contrari.

A seguito del voto, quasi del tutto ignorato dalla stampa mainstream ebraica come tema minore, l’opinione pubblica araba si è profondamente lacerata. Aymah Odeh, leader della Lista unita e di Hadash, ha difeso il proprio sostegno alla legge affermando di aver votato secondo coscienza e non per porre la battaglia Lgbtq+ all’ordine del giorno nell’agenda araba, ma Mansour Abbas, leader del partito islamista Ra’am, l’ha pubblicamente accusato di aver tradito le aspettative di una comunità a maggioranza legata a valori musulmani tradizionali, bollando la scelta di Odeh come antidemocratica, in quanto priva di un chiaro mandato a negoziare su scelte etiche contrapposte ai valori dei suoi elettori. Abbas gli rimprovera inoltre un atteggiamento snobistico nei confronti di un elettorato arabo accusato di “ipocrisia” in tema di diritti civili.

La controversia tra i due leader si è estesa col tempo, dilagando su altri fronti. Occorre tenere a mente che Abbas non è soltanto il leader dell’unico partito religioso che si richiama apertamente alla movenza islamista in Israele, ma è anche il vicepresidente della Knesset e, dunque, un potenziale concorrente ad Odeh all’interno dello scacchiere politico israeliano. Entrambi, infatti, lottano nominalmente per l’uguaglianza dei cittadini arabo-palestinesi in Israele, ma facendosi portavoce di progetti politici sostanzialmente diversi.

Se Hadash rappresenta il partito più progressista di Israele, con un’adesione ed una rappresentanza mista arabo-ebraica anche ai più alti livelli dirigenziali e una visione laica per uno Stato binazionale che dovrebbe sconfessare il proprio carattere esclusivo ebraico (rigettando la Legge fondamentale sullo Stato-nazione ebraico, 2018) per incorporare in piena parità tutti i propri cittadini, Ra’am è un partito separatista, che sprona lo sviluppo dei Palestinesi di Israele in quanto gruppo autonomo e distinto dalla maggioranza ebraica.

Quale sia il progetto di società ipotizzato da Mansour è lui stesso a rivelarlo in parole riportate recentemente in un editoriale del giornalista di Ha’aretz, Anshel Pfeffer: «Che cosa dovrei avere io in comune con la sinistra come leader di un partito islamico? Sulle questioni etiche e religiose io sono un uomo di destra. Ho molto più in comune con partiti come Shas (il partito ultraortodosso mizrahi ebraico) e il partito dell’Unità dell’ebraismo della Torah (UTJ) che con Meretz e Hadash». Ed è proprio il modello vincente dei partiti ultraortodossi che Ra’am vorrebbe emulare: un modello che passa per la piena incorporazione nelle commissioni della Knesset e, potenzialmente, anche nei futuri governi israeliani, anche e soprattutto a guida Netanyahu. Poco male se il prezzo da pagare sia accorrere in sua difesa rigettandone le accuse di corruzione nel caso dell’affare della vendita dei sottomarini (caso 3000) e blindandone la posizione al governo, come avvenuto lo scorso ottobre.

Abbas è consapevole, infatti, che Netanyahu sia “lì per restare” mentre la Sinistra ebraica si è ormai ridotta ad una riserva in via di estinzione e senza più alcuna possibilità di tornare al potere: perché mai dunque gli arabi dovrebbero perseguire la via di un’alleanza fallimentare con partiti ininfluenti condannandosi così a loro volta all’inconsistenza? Se l’obiettivo è che gli arabi contino di più in Israele, per ottenerlo ogni scelta è lecita: anche appoggiare Netanyahu che li ha retoricamente dipinti come terroristi alle scorse elezioni. La sua è una rivoluzione pragmatica: predicazione di un Islam moderato, rigetto del terrorismo e integrazione settoriale nella società israeliana per lo sviluppo autonomo della comunità araba. Un’integrazione che porti posti di lavoro nei settori dell’hi-tech israeliano, strade, infrastrutture e servizi nelle municipalità arabe e nuove stazioni di polizia per arginare la violenza urbana di cui quest’ultime sono particolare preda.

Poco importa se i Palestinesi oltre cortina continuano a vivere in una riserva in Cisgiordania e in un carcere a cielo aperto nella Striscia di Gaza, se gli islamisti arabo-israeliani possono accrescere la loro influenza alla Knesset ottenendo più fondi per la loro comunità compiendo una “normalizzazione” interna che tanto assomiglia a quella operata dagli “Accordi di Abramo” sullo scacchiere internazionale. In definitiva, la lotta contro il progresso dei diritti civili individuali rientra a pieno titolo tra gli obiettivi della lotta palestinese, mentre quella contro l’imminente annessione e il continuo avanzamento delle colonie potrebbe anche essere tralasciata in nome della “moderazione e del pragmatismo”.

Mai come oggi la questione palestinese sembra versare in una crisi identitaria profonda e aver smarrito il suo obiettivo, ma oggi più che mai occorrerebbe ricordarsi che le lotte per i diritti non vanno mai disgiunte le une dalle altre e che combattere per il riconoscimento dei diritti collettivi nazionali non può escludere la battaglia progressista per l’avanzamento dei diritti individuali, pena la perdita di un contenuto ideale che solo può raccogliere intorno a quella battaglia un’adesione trasversale di gruppi di fedi politiche e religiose diverse.