Il primo ministro etiope, insignito nel 2019 del Nobel per la pace, ha lanciato un attacco militare nel Nord del Paese contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray per sedare tensioni e scontri interetnici. E già si parla di centinaia di vittime tra i civili

«La guerra è l’epitome dell’inferno per tutti coloro che vi sono coinvolti. La guerra rende gli uomini aspri, senza cuore e selvaggi». Era il 10 dicembre 2019 quando con queste parole il primo ministro etiope Abiy Ahmed riceveva il Premio Nobel per la Pace a Oslo per la «testimonianza senza tempo degli ideali di unità, di cooperazione e coesistenza reciproca». In effetti, salito al potere nell’aprile del 2018 a soli 42 anni, Ahmed aveva rappresentato una speranza per l’Etiopia e forse per l’intero continente africano: in politica estera, aveva firmato la pace con la vicina Eritrea ponendo fine a un conflitto durato 20 anni mentre in politica interna aveva deciso di liberare i prigionieri politici, di riallacciare il dialogo con gli oppositori in esilio e combattere la corruzione promuovendo la riconciliazione, la solidarietà e la giustizia sociale.

In meno di 365 giorni di quell’uomo così tanto lodato in Occidente sembra essere rimasto ben poco. La brutale guerra civile iniziata da Addis Abeba nel nord del Paese il 4 novembre scorso contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) sconfessa tutto quanto il leader etiope aveva detto a Oslo. Ovviamente, Ahmed si difenderebbe dalle accuse: l’operazione militare nel nord del suo Paese è solo per «liberare» il territorio tigrino e riportare «il governo della legge» nell’area dove imperversano le forze «terroriste» del Tplf. Ma la realtà è come sempre ben più complessa: il conflitto in corso nel Tigray è figlio di mesi di forti tensioni e violenti scontri interetnici che hanno preso di mira non solo i tigrini ma anche gli oromo, l’etnia maggioritaria del Paese a cui appartiene il primo ministro.

Lo strappo tra Tplf e il governo di Ahmed risale a un anno fa quando il premier dissolse il governo di coalizione e creò al suo posto il “Partito della prosperità” a cui però non ha aderito la forza tigrina. Il clima di ostilità è montato di giorno in giorno con il Tplf che ha denunciato la campagna governativa repressiva nei suoi confronti. La situazione è però precipitata soprattutto a ottobre quando nella regione del Tigray, in cui risiede il 6% dei 110 milioni complessivi di etiopi, si sono svolte le elezioni regionali nonostante il governo federale avesse deciso di…


L’articolo prosegue su Left del 4-10 dicembre 2020

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