Fanno cultura, creano socialità attraverso lo sport nei territori abbandonati dallo Stato. Sono le associazioni di sport popolare disseminate nel nostro Paese. Spesso sono ultimo baluardo contro le infiltrazioni della criminalità organizzata, ora devono fare i conti con le misure anticovid. Ne abbiamo visitate alcune, ecco le testimonianze di chi abbiamo incontrato

«Se noi chiudiamo, i ragazzi perdono tutto. E non solo perché non potranno più allenarsi. Quando hai vissuto in un contesto che non ti ha dato nulla, nel momento in cui hai l’opportunità di avere spazi come il nostro, è come se ti si aprisse un mondo. Un faro nel buio delle istituzioni».

Giulio Bartolini è il preparatore atletico della Palestra Popolare Valerio Verbano, situata nella periferia nord di Roma, nella borgata del Tufello, e le sue parole ci portano all’interno di una delle realtà sociali che più ha subito le conseguenze della pandemia: lo sport popolare. Da quando il Dpcmc del 18 ottobre ha stabilito la chiusura di tutte le palestre e i campionati dilettantistici di sport di contatto, definendoli non essenziali, è entrato in profonda crisi un intero settore che il Coni valuta attorno ai 60 miliardi e a quasi il 4% del Pil italiano. Ma il danno di cui vogliamo parlare non è solo di carattere economico. In luoghi fragili come le nostre periferie, attanagliate da problemi con in primis la dispersione scolastica decine di migliaia di realtà sportive non professionistiche riempiono il vuoto lasciato dallo Stato attenuando il senso di emarginazione e le infiltrazioni della malavita organizzata. Realtà come la Palestra Popolare Valerio Verbano attraverso la diffusione e la promozione dello sport sono diventate a tutti gli effetti dei veri e propri baluardi di legalità e valori sociali.

«Esistiamo da 12 anni – racconta Bartolini – e la Palestra è nata in seguito all’occupazione dei locali delle ex caldaie di alcune case popolari del Tufello». Questo presidio porta il nome di un giovane antifascista del quartiere, ucciso nel 1980 in un agguato squadrista. Nella palestra si allenano 300 ragazzi e ragazze che frequentano corsi che vanno dalla boxe alla ginnastica artistica e che porta molti di questi a gareggiare in campionati regionali e nazionali. Ma quest’esperienza, a causa dell’emergenza da Covid 19 e delle restrizioni per contenerla, oggi rischia di sparire.
«Quando a marzo è arrivata la pandemia ci siamo subito resi conto che non saremmo stati in grado di affrontare le inevitabili restrizioni, erano troppo proibitive. Una situazione che nessuno conosceva e non sapevamo come gestire. Il nostro pensiero si è concentrato sulla salute dei ragazzi prima di tutto, tanto vero che abbiamo chiuso subito» continua a raccontare Giulio che ha vissuto tutti i suoi quarant’anni nella borgata e considera i suoi allievi come una seconda famiglia. Nella sua struttura ci si iscrive non solo per fare sport ma anche per studiare e incontrarsi, con la partecipazione dei genitori e della comunità. Ma gli unici aiuti che la palestra ha ottenuto fin ora dallo Stato sono quelli erogati ai collaboratori sportivi, 600 euro una tantum. «Lo sport nelle periferie lo facciamo noi o almeno quello che noi intendiamo come attività sportiva che trasmette un valore. Se non ci bloccano gli affitti e il pagamento delle utenze questo mondo è destinato a morire».
Ci spostiamo ora in Toscana. Il Centro storico Lebowsky è una cooperativa sportiva calcistica dilettantistica ad azionariato popolare, situata nella periferia di Firenze, fra Tavernuzze e Impruneta. Nata con l’idea di sottrarsi alle logiche imprenditoriali che appiattiscono il mondo dello sport, conta circa 800 soci che di fatto sono anche i proprietari.
Schierava, fino al blocco di ottobre, ben 5 squadre di calcio che militano dalla prima categoria fino alle amatoriali, di cui 2 femminili, ed ha una scuola calcio totalmente gratuita nel centro storico del capoluogo toscano. Tommaso Gamannossi, socio e allenatore del Centro storico Lewbosky, vede perdersi, man mano che passano i mesi, l’obiettivo primario della sua associazione: riscoprire il senso di aggregazione che sia lo sport che gli spazi urbani non riescono più a fornire. «Stiamo soffrendo, atrocemente. Perché per tante delle centinaia di persone che formano la nostra Cooperativa, la «ricompensa» per il tempo, le energie e i soldi spesi nella cura del nostro progetto, sono dati dalla socialità e dallo stare insieme. Il virus ha azzerato tutto questo».
Però secondo Tommaso e i suoi soci non tutto è perduto: «Si può immaginare un calcio diverso che recuperi la propria funzione sociale nel territorio che lo ospita? Noi pensiamo di sì. Attorno alla capacità di risposta che porteranno a braccetto istituzioni e comunità, si giocherà la sopravvivenza di tante società nei prossimi mesi!»
Se è vero, come abbiamo detto, che lo Stato di fatto delega al privato un settore fondamentale per la salute psicofisica dei cittadini come lo sport, vanno anche sottolineate le eccezioni.
L’azienda pubblica di servizi alla persona Asilo Savoia è una di queste. Gestisce, finanziandosi con bandi pubblici e utilizzando strutture sottratte alla criminalità organizzata, realtà fondamentali nel macrocosmo della periferia romana. A Ostia sul litorale romano c’è per esempio la Palestra della legalità. È stata aperta nei locali confiscati a Mauro Balini, re decaduto del porto turistico del X Municipio e ora in carcere per associazione a delinquere e bancarotta fraudolenta. Ai corsi sono iscritti 1200 persone, di cui il 20% a titolo totalmente gratuito, mediante un accordo con i servizi sociali e il municipio.
«L’esistenza di questo spazio ad Ostia è importante» commenta Francesco Tittolo, responsabile della struttura. «Le realtà sportive di arti marziali ben si prestano ad essere strumentalizzate dalla criminalità che ne detiene il monopolio per poi utilizzare gli atleti nella riscossione del pizzo».
La Palestra della legalità affianca all’insegnamento dello sport anche una formazione professionale sportiva, per proporre un futuro e non abbandonare gli atleti dopo la fine dell’attività agonistica. Adesso i corsi sono chiusi ma fin da marzo con il primo lockdown sono state istituite lezioni di allenamento tramite una piattaforma on line, per non lasciare «soli» i propri iscritti in questo difficile periodo.
«Questa è una filiera pubblica che si occupa dall’inizio alla fine di un bene, che in questo caso è la palestra. Non è la solita situazione del pubblico che riqualifica e poi lascia a un privato non ben identificato. Non abbiamo una finalità commerciale e non vogliamo fare utile. Noi vogliamo creare un impatto sociale in un territorio abbandonato» conclude Francesco.
Per Libera contro le mafie, associazione che coordina più di 1600 realtà nazionali e internazionali che si occupano di opporre la cultura alla criminalità organizzata e di promuovere la legalità negli spazi dove più frequentemente è oltraggiata, lo sport è un medium fondamentale per parlare con i giovani.
«Lo sport è un bene pubblico e non una cenerentola da chiudere perché non essenziale– racconta Lucilla Andreucci, referente nazionale “sport” per l’associazione -. Dopo la scuola e la famiglia, è la terza via educativa e formativa che possediamo. Possiamo usarlo come ponte per parlare di legalità o far rivivere la memoria degli eroi della lotta alle mafie. Nelle periferie dove i nostri ragazzi vivono una dimensione di solitudine affollata possiamo ricreare aggregazione e appartenenza».
Il quartiere San Lorenzo nella capitale invece non è definibile periferia, ma subisce allo stesso modo la disgregazione del tessuto sociale, causata dalla chiusura di spazi culturali, come il nuovo Cinema Palazzo (sgombrato recentemente dalla Prefettura) e il proliferare incontrollato di attività ricreative che vanno ad alimentare la filiera di quartiere parco giochi per studenti. A resistere e a lottare contro la desertificazione dell’identità civica c’è l’Atletico San Lorenzo.
Ad Andrea Dorno, allenatore di una della squadra di basket della società, preme subito chiarire: «La concezione di sport che proponiamo è totalmente alternativa a quella istituzionale. Deve essere una parte fondamentale della costruzione dell’identità di individuo e cittadino. Ci siamo resi conto che nelle scuole la materia di educazione fisica viene totalmente lasciata a se stessa mentre al di fuori esistono solo modelli iper competitivi e non inclusivi». L’Atletico è un’associazione sportiva dilettantistica popolare che esiste da sette anni ed è basata sulla partecipazione e sull’autofinanziamento. Collabora a vario titolo anche con le scuole elementari del quartiere dove è inserita. «Ci ritroviamo a fare i nostri progetti con più di venti studenti in palestre di pochi metri quadri in periodo di pandemia. L’unica possibilità è aprire allo sport le piazze e le strutture private, ma sono idee che possono passare solo da degli investimenti pubblici e dalle decisioni dettate dal municipio».
Secondo dati Istat in Italia circa il 30% degli sportivi giudica non adeguati i luoghi dove pratica sport; nel Mezzogiorno la percentuale supera il 50%. Se si è un portatore di handicap che abita in una periferia di una grande città meridionale, le possibilità di avere strutture adeguate sono prossime allo zero. Per questo la Onlus Maestri di strada ha aperto dei corsi di sport inclusivo nella periferia est di Napoli. Un’area che non permette una vita semplice alle persone disabili, anche a causa del cono di ombra che rende invisibile allo stato questo territorio. Ma con l’esplosione dei casi di Covid-19 che hanno reso la Campania “zona rossa” tutte le lezioni sono state bloccate, isolando famiglie e portatori di handicap che già di fatto da anni vivevano una condizione di segregazione domestica. Federico Zaccaria, psicologo e collaborare di Maestri di strada ci spiega: «Le attività sono sospese e quindi cerchiamo di mantenere il rapporto con i nostri assistiti come possiamo, per salvare il lavoro fatto fino ad oggi. Per farvi un esempio un ragazzo autistico che ho incontrato dopo la fine del primo lockdown era peggiorato vistosamente, aumentando tutte le sue stereotipie». Il vuoto che si crea con il blocco dello sport in questo caso assume un doppio significato. Si perde sia la possibilità di permettere a chi ha handicap gravi di praticare sport, sia di far uscire le persone dalle proprie case e socializzare. Ma Federico come tanti altri non si arrende: «È una situazione che mette i ragazzi e i loro cari in estremo stato di disagio. Ma questa emergenza non fermerà mai il nostro lavoro, al massimo lo rallenterà».


Il reportage è stato pubblicato su Left dell’11 dicembre 2020

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