Il gesto di un attivista congolese in un museo parigino ha acceso un’ampia riflessione sulle responsabilità dell’Occidente rispetto al saccheggio coloniale. E intanto giovani artisti africani rileggono in modo critico il passato del Continente

Il 30 settembre 2020 è cominciato a Parigi un singolare processo per tentato furto. Alla sbarra c’è infatti Mwazulu Diyabanza, un attivista congolese (nato a Kinshasa nel 1978) le cui gesta somigliano più a quelle di un performer che di un ladro.
Nello scorso giugno, alla testa di un gruppetto di cinque persone, era infatti entrato regolarmente, in orario di apertura, in quel magnifico museo antropologico che è il Quai Branly-Jacques Chirac, si è fatto filmare in diretta Facebook mentre declamava un discorso contro i soprusi del colonialismo, ha afferrato un’opera africana ed è stato naturalmente bloccato dalla sicurezza prima di raggiungere l’uscita. Un esito non solo previsto, ma fortemente voluto, visto che da allora l’azione è stata ripetuta almeno due volte, a Marsiglia e a Berg en Dal, in Olanda. Diyabanza ha ottenuto una visibilità mediatica che gli ha permesso di rendere subito di dominio pubblico una linea difensiva che è in realtà un contrattacco molto pesante non a un singolo museo, ma a un sistema di valori consolidato, di cui il museo è espressione. Una linea amplificata dai movimenti di protesta che negli Stati Uniti come in Europa, sull’onda del Black Lives Matter, si sono scagliati contro monumenti e musei percepiti come manifesti di razzismo, schiavismo, colonialismo. «Non si chiede il permesso a un ladro per riprenderci quel che ci ha rubato – ha dichiarato più volte Diyabanza – così non pago per ammirare quel che è stato sottratto con la forza al mio continente». Non furto, dunque, ma riappropriazione del maltolto.

Siamo ben oltre Robin Hood, e per due ragioni. Diyabanza non si batte per una semplice redistribuzione di ricchezza, ma per il risarcimento di un patrimonio, e di un’identità culturale. E l’azione è rivolta verso non la singola comunità di un singolo Stato – perché le opere afferrate a titolo dimostrativo non venivano solo dal Congo – ma un intero continente. Un atto politico forte, che da un lato mette l’Occidente di fronte a responsabilità troppo a lungo minimizzate, o addirittura negate; dall’altro, risveglia e alimenta un orgoglio africano che deve esprimersi anche attraverso un rinnovato avvicinamento alla propria arte, tanto consapevole da diventare riappropriazione. Curiosamente, Diyabanza ha ricalcato le orme del protagonista di un film nigeriano del 2014, Invasion 1897 di Lancelot Oduwa Imasuen, uno studente che colpito da una lezione sul colonialismo, si introduce nottetempo in un museo inglese per trafugare alcuni bronzi del Benin e riportarli nel suo Paese, ma viene placcato dagli agenti. Al processo sostiene la stessa tesi di Diyabanza, rievocando in flashback la fine dell’ultimo regno africano rimasto indipendente (a parte l’Etiopia del nostro famoso avversario Menelik) annientato dalla “spedizione punitiva” britannica del 1897. In seguito alla quale, col pretesto di…

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L’autore: Fulvio Cervini è docente di Storia dell’arte all’Università di Firenze


L’articolo prosegue su Left del 23 dicembre 2020 – 7 gennaio 2021

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