Nel ’44 il futuro segretario del Msi firmò per la Repubblica di Salò il bando di fucilazione per chi andava con i partigiani. Un fatto avvolto nell'omertà finché quel testo non venne pubblicato da l’Unità e il manifesto. Ora un libro di Carlo Ricchini ricostruisce tutta la vicenda

Capita di dover sentir dire con malcelata soddisfazione democratica – anche da chi, sinistramente, si professa di sinistra – che Almirante e Berlinguer provassero reciproci sentimenti di rispetto se non addirittura di stima (mancherebbe l’affetto per una zuccherosa triade da Piccolo mondo antico). Capita che qualcuno rievochi quasi con deamicisiana commozione l’omaggio che il capo del Msi fece al segretario del Pci presso la camera ardente allestita in via delle Botteghe oscure in quel giugno della sua scomparsa. Capita di leggere righe di rimpianto per quella stagione politica segnata da Berlinguer e Almirante. Una stagione in cui, con le loro ali – destra e sinistra – perimetrarono il sempre affollatissimo centro presidiato dai tanti papaveri democristiani e le tante paperelle di contorno.

Con uno di quei democristiani – nello specifico, il di lui collega di beatitudine Aldo Moro – Berlinguer cercò di stringere quel patto scellerato affossatore di ogni progettualità dell’unione delle sinistre. Spaventatissimo dal golpe cileno e temendo di precipitare in quell’abisso, il segretario del Pci era nietzschianamente finito nei tentacoli della Democrazia cristiana (quella “buona”, s’intende, quella morotea), che con le braccia di Moro l’aveva accolto come figliol prodigo della democrazia. Un abbraccio che – nelle intenzioni e nelle intuizioni di Moro – avrebbe finito per stritolare il mondo comunista (come in effetti sarà sulla lunga distanza, con la lieve margherita a primeggiare sulla corposa quercia). Ma questa è un’altra storia, come suol dirsi. Torniamo a quella del segretario dell’insospettabile estimatore di Berlinguer, vale a dire quel segretario del Movimento sociale erede del Pnf, cui ha dedicato una ricerca storica Carlo Ricchini, già caporedattore dell’Unità, con un libro, L’avrai, camerata Almirante edito da 4Punte edizioni (i chiodi a quattro punte usati dai partigiani per sabotare gli spostamenti dei nazifascisti, e per questo, simbolo della Resistenza).

Si tratta, in buona sostanza, della restituzione della memoria a un Paese troppo spesso distratto, tanto da far avanzare da qualche amministratore pubblico proposte oscene quali quelle dello scorso 16 gennaio, quando, mentre il Senato nominava Liliana Segre presidente di un Comitato per contrastare ogni forma di razzismo e di violenza (con la vergognosa, seppur coerente assenza dei voti delle destre), nell’albo pretorio del Comune di Verona appariva la decisione di intitolare una via a Giorgio Almirante: decisione che portava la Segre a rifiutare contestualmente la cittadinanza onoraria offertale dalla città dei due amanti del balcone, con queste parole: «Le due scelte sono incompatibili per storia, etica e logica». Memore di…


L’articolo prosegue su Left del 23 dicembre 2020 – 7 gennaio 2021

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