Con questa intervista pubblicata su Left nel 2012 ricordiamo il grande poeta dialettale scomparso a Milano. Fu il cantore dell'Italia popolare e nascosta, «che lavora e si dispera»

Anche il poeta si accorge dell’Italia scunda «che laura e se despera». Nella lingua milanese, morbida come il suono di un flauto, Franco Loi canta dell’Italia nascosta «che lavora e si dispera». E va ancora più a fondo, senza alcun pudore, a cercare con le parole le cause del «mal». Che non è il «dulur», né tantomeno «la paura o la desgrassia / vèss pòer o ferì, / andà bèl biott…» (la paura o la disgrazia, essere povero o ferito, andare del tutto nudo), ma «despèrdess ne la nèbia del savè» (disperdersi nella nebbia del sapere). Loi ha da poco pubblicato per Interlinea la raccolta I niül (Le nuvole) in cui il grande poeta dialettale coglie immagini silenziose della città, sorpresa all’alba o all’imbrunire, lambita da nuvole rosa con sbuffi di scuro. Un’opera in cui soprattutto si manifesta l’interesse forte per l’umanità dolente dei nostri giorni. Come nelle pagine finali, in quel “monologo del povero cristo”, in cui la rabbia per l’ingiustizia è urlata a piena voce. Nato a Genova nel 1930 da padre ferroviere di origine sarda e madre emiliana, vissuto dal 1937 a Milano, Loi ha un passato di militante comunista, maturando poi una netta posizione critica che emerge anche oggi quando parla di ideologia. Loi, in questi tempi cupi di crisi economica e di lucide operazioni di “tecnici”, appare come un gentile e ostinato Mercurio. Un messaggero della forza del canto poetico, del “dire”. Lo farà anche al Salone del libro di Torino, giovedì 10 maggio all’incontro di cui è protagonista, dal titolo “La luce della poesia”.

Ed è da qui, dalla parola “luce” che inizia il colloquio con Franco Loi. La poesia, chiediamo subito, può illuminare lo “scuro”? Il poeta risponde: «Sì, perché la poesia non dice il nostro io cosciente. Tu ti affidi al tuo inconscio e dentro di te escono queste parole che sono poi suoni, ritmi». Il poeta “dice”, ed ecco che «la tua esperienza esce in modo completamente diverso da come l’hai nella mente. Tant’è vero che il poeta prima di tutto si stupisce di quello che ha scritto». Ma la poesia non solo desta stupore nel poeta. È uno strumento di conoscenza. «Il suo dire è pieno di cose, pensieri, sensazioni inconsce, emozioni» continua «e tutto questo ti fa capire di più e conoscere di più te stesso. Ecco perché io dico che fa luce dentro di te e rende chiaro qualcosa che prima era oscuro». E non si finisce mai di imparare perché anche il pubblico che ascolta può far notare qualcosa che era sfuggito all’autore. «La tua consapevolezza aumenta e tu impari sempre qualcosa di nuovo. Questo è straordinario. La poesia è una delle strade per la conoscenza, di te e delle cose che hai sperimentato nella vita». Certo, se ci si può affidare così liberamente a questa realtà interiore, significa che non se ne ha paura. Non c’è il mostro dentro di noi, quindi, come scriveva Stevenson ne Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr Hyde? «No. Anzi, io credo una cosa: che solo chi non fa continuamente conoscenza con se stesso allora sì che diventa un mostro!».
C’è anche, però, tra i poeti, chi è un po’ più prudente. Loi spiega: «Quando per esempio Zanzotto parla dell’inconscio e della poesia, fa il paragone con il terremoto del Friuli. E allora lui si ritrae perché è come se si trovasse davanti un baratro che lo può sommergere». Alla fine, continua il poeta milanese, è come «entrare in rapporto con il mistero della vita». Qualcosa, poi che accomuna poeti e scienziati, e qui Loi ricorda una frase di Max Planck (“Più conosco e più mi trovo davanti il mistero”). E a proposito di scienziati, cita volentieri («l’ho detto e lo ripeto sempre, perché è fondamentale») una frase di Einstein: «Non si perviene alle leggi universali per via di logica ma per intuizione. L’intuizione non la facciamo noi ma è possibile con il rapporto simpatetico, amoroso, con l’esperienza». Poeti, scienziati e anche filosofi. Franco Loi, inarrestabile, parla di Croce e di Dante e della celebre frase del “sommo poeta” (“Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta
dentro vo significando…”), per spiegare il «fare spirituale» che sta dietro al verbo greco poiein.

Ma, chiediamo ancora, se la poesia è conoscenza per il poeta, lo è anche per chi ascolta o legge? «Anche per lui! Intanto i suoni sono importanti: Yeats diceva che in poesia lo sono più dei significati apparenti. Quindi è come ascoltare la musica – la grande musica, Bach, Mozart… – e ti viene da piangere, senza sapere perché». «Se ascolti un poeta non è che senti solo i significati di quel che il poeta dice», continua Loi, «ma viene vuori anche il tuo significato, la tua memoria inconscia che si manifesta. È una crescita». E è qualcosa di profondamente diverso da quello che accade nel parlare comune perché c’è «quel legame tra chi dice e chi ascolta, che in genere nella chiacchera non c’è. La chiacchera è la chiacchera».

Questa però è un’epoca di “chiacchera” a cui contribuiscono anche quelle «antenn ‘me catanai/ ch’j porta merda aj gent denter i câ» (le antenne come arnesi / che portano merda alla gente dentro le case). «La sensibilità verso la poesia è diminuita tra la gente del popolo, ma le persone che ne sentono ancora il bisogno sono ancora tante», ammette Loi. «Il popolo, quello che ho conosciuto io, gli operai, gli artigiani, i contadini – gente che lavorava con le mani – guarda la televisione e crede che la poesia sia una cosa letteraria», aggiunge con una vena di tristezza. La scuola, poi, non la fa amare e la rende estranea ai ragazzi, perché «la insegnano come un gioco letterario, come una costruzione di testa e gli presentano come grandi poeti quelli che invece sono spesso pessimi poeti».
Ma la gente che ama la poesia c’è ancora, come c’è chi ama la musica, la pittura, «perché cerca, vuole capire». Quello che non va, aggiunge Loi, è l’ideologia, quella pretesa della conoscenza, di costruire una logica, «dopo di che rispondi all’idea, non pretendi più di conoscere te stesso e non ti confronti più con la realtà». È il rischio grande. Quello di perdere un frammento di meraviglia che può assalire leggendo per esempio queste parole: «E a l’umbra di purtun la lüna dansa / tra quèl tasè di üsèj ch’j par penser» (e all’ombra dei portoni la luna danza / tra quel tacere d’uccelli che sembrano pensieri).

Da Left del 4 maggio 2012

Una laurea in Filosofia (indirizzo psico-pedagogico) a Siena e tanta gavetta nei quotidiani locali tra Toscana ed Emilia Romagna. A Rimini nel 1994 ho fondato insieme ad altri giovani colleghi un quotidiano in coooperativa, il Corriere Romagna che esiste ancora. E poi anni di corsi di scrittura giornalistica nelle scuole per la Provincia di Firenze (fino all'arrivo di Renzi…). A Left, che ho amato fin dall'inizio, ci sono dal 2009. Mi occupo di: scuola, welfare, diritti, ma anche di cultura.