La serie di Agora Europe “Otherside//Europe” racconta l’Europa dall’altra parte, da oltreoceano e oltreconfine, e affronta il tema dell’acqua come frontiera. Questa settimana Caterina Di Fazio dialoga con il velista Giovanni Soldini, specialista in navigazioni solitarie. Da sempre il mondo della vela si interseca con quello delle migrazioni e queste a loro volta si intersecano con il problema ambientale e della protezione degli oceani dall’inquinamento. I navigatori sono “strumenti” indispensabili per la ricerca in questi campi perché fanno rotte che non fa nessun altro. I dati che raccolgono, come ha fatto ad esempio Jon Sanders negli oceani del sud rispetto alla plastica riversata in mare, sono dati che non sarebbero ricavabili in altro modo

Giovanni, per te l’acqua significa tante cose: significa navigazione, ma anche risorsa – ricordo che hai promosso con Amref la questione dell’acqua in Africa -, ti sei impegnato col salvataggio in mare e hai attraversato oceani. E poi che hai fatto?
Più o meno ho fatto questo, non si può fare tutto. Sicuramente il tema del mare, del salvataggio in mare, dell’acqua come frontiera è un tema che mi è molto vicino perché comunque io penso che la prima legge di qualsiasi marinaio, la prima legge del mare è proprio che in mare la vita umana va sempre salvata. Prima si salva poi si pensa. Questa è in realtà una legge che viene da molto lontano, da una cultura millenaria, oserei dire, ma che incredibilmente è messa in discussione proprio adesso dai Paesi “sviluppati”, no? È una situazione molto brutta ma ormai da qualche decennio i Paesi ricchi attuano politiche contrarie a questa legge del mare.

A te è capitato di essere salvato e di avere salvato in mare.
È vero. Ho salvato una naufraga (Isabelle Autissier, durante la terza tappa dell’Around Alone nel 1999, ndr), però sono anche stato salvato nel 2005 da una petroliera che arrivava dal Golfo Persico, una delle navi più grosse al mondo, una nave che non passa neanche il canale di Panama, larga 40m e lunga 380m. Mi pescarono in mezzo all’Atlantico a mille miglia da Dakar verso ovest. Mi ero cappottato insieme all’amico Vittorio Malingri su un trimarano e la cosa allucinante è stata che quando la petroliera si è ormeggiata al largo dalla costa nel Golfo del Messico davanti a Houston nessuno ci ha voluto portare a terra. Eppure avevamo tutti e due il passaporto, un visto a tempo indefinito per gli Stati Uniti e una sfilza di carte di credito.

Perché non volevano?
Perché eravamo naufragati. Non c’era verso di scendere a terra. Dopo 10 giorni abbiamo dovuto affittare un elicottero perché altrimenti saremmo dovuti ripartire con la nave. Questo è accaduto perché negli Stati Uniti, come in Europa, come in Italia, come in tutti i Paesi ricchi chi porta a terra un naufrago ne diventa totalmente responsabile. E anzi nel caso dell’Italia può essere anche accusato di essere uno scafista.

Questa oggi è la situazione che vivono tutti i naufraghi in mare dalle nostre coste fino alle Canarie.
Noi eravamo molto protetti. Se fossimo stati dei naufraghi senza un passaporto “giusto” non voglio immaginare cosa sarebbe potuto succedere. Perché alla fine per una nave, soprattutto per l’armatore della nave, tu sei solo un grossissimo problema. E in mezzo al mare non ti vede nessuno. Un problema del genere si risolve in un attimo, nel senso che ti prendono e ti fiondano a mare senza pensarci due volte. Tanto più oggi che per esempio il…


L’articolo prosegue su Left del 12-18 febbraio 2021

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