Fin dagli anni Ottanta il regista con i Krypton ha sperimentato in vari modi la multimedialità. E sul fenomeno degli spettacoli in streaming osserva: «Il linguaggio elettronico è espressione di un’epoca e non va svuotato di senso»

Cinema e arti visive godono già di un status virtuale che in tempi di pandemia può assolvere il compito della loro diffusione. Per il teatro la fruizione mediatica (a meno di non esaltarne il valore storico documentario che certo può essere utile ma non risolutivo) suona come una contraddizione. Da un anno ormai, fatta salva la parentesi estiva, lo spettacolo dal vivo si è fermato. Lo spostamento sulle piattaforme è una sostituzione necessaria, anche benvenuta. Lo streaming si afferma come potenziale estetico carico di futuribile funzionalità oltre che di sicuro godimento, poetico e drammaturgico. Ma fino a che punto? Fino a che punto si riflette sulla presenza del pubblico? Fino a che punto il suo rapporto con lo spettatore è vincente o di esso può anche fare a meno, concepito com’è per platee alternative, virtuali appunto, indefinite e inafferrabili? È lecito parlare di impoverimento dell’immaginario teatrale? La ricerca e l’esperienza di un teatro endemicamente multimediale come quello coltivato fin dagli anni 80 del ’900 da Giancarlo Cauteruccio e dai suoi Krypton può essere utile per schiarirsi le idee. Per raccogliere spunti, individuare possibili margini, accettarne e accertarne i limiti.

Partiamo dall’inizio. Già quarant’ anni fa avevi preconizzato l’uso della tecnologia in ambito teatrale e su questa equazione di pura avanguardia hai costruito il tuo linguaggio d’artista e la tua carriera. Fu sfida o dialogo? Come stai vivendo questa condizione d’isolamento cui solo il ricorso all’online sembra porre rimedio?
La osservo da uno stato di disorientamento. Ho sempre pensato alla tecnologia come a un linguaggio e non uno strumento, come alla possibilità di innovare il teatro, la più antica espressione dell’uomo, attraverso quella necessità del moderno e del contemporaneo di svelare i processi che conducono all’opera d’arte, senza badare esclusivamente ai risultati che si ottengono. È proprio l’arte del Novecento a insegnarci che la “ricerca” non mira a risultati estetici ma deve procedere per sperimentazioni, tentativi da sottoporre alla sensibilità del pubblico affinché ne sia sollecitata la riflessione, aprendo così la strada a una crescita culturale. La mia sperimentazione, non sempre compresa nell’ambito del fare teatro, ha prodotto dei risultati importanti, ma sempre fuori da concreti riconoscimenti istituzionali. Oggi, in questo “punto zero” che è venuto a manifestarsi, viene a galla l’inadeguatezza di coloro che hanno difeso solo la tradizione ignorando l’innovazione. Oggi la necessaria innovazione tecnologica trova i gestori del teatro italiano impreparati, in una condizione di palmare ignoranza rispetto al…


L’articolo prosegue su Left del 26 febbraio – 4 marzo 2021

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