La street artist è stata in Bosnia, nei campi profughi al confine con la Croazia, portando con sé alcune sue opere come Life is not a game. «Ho visto la disperazione, ma anche la ferrea volontà di non cedere al meccanismo disumanizzante dei respingimenti»

Ha lanciato il cuore oltre l’ostacolo, Laika, la street artist che tutti conoscono a Roma e a livello internazionale. Quattro opere sulla rotta dei Balcani, al confine tra Bosnia e Croazia, tra i campi profughi di Lipa, Bihac, Velika Kladusa, nel Cantone dell’Una Sana. Un viaggio per raccontare le condizioni in cui versano i migranti provenienti dall’Asia e dal Nord Africa. Poster che fanno tremare i polsi e focalizzano l’attenzione sulla pagina più buia dell’Europa.

Perché lo hai fatto? Quando e come è nata l’esigenza di andare in prima persona e operare sul posto?
Ho sentito l’esigenza di raccontare una storia di cui purtroppo si parla poco. Una terribile violazione dei diritti umani, di cui la gente sembra non voler rendersi conto. Mi sono imbattuta in alcuni reportage sul tema, ho approfondito l’argomento e ho cominciato a disegnare una delle opere, quella intitolata Life is not a game. Non avevo ancora deciso di andare in Bosnia, anche perché in questo periodo pianificare degli spostamenti è complesso. È successo che, man mano che disegnavo, pensavo a dove avrei voluto attaccare i poster. E lì è nata l’esigenza. Per me è molto importante la “cornice” di un’opera, il luogo dove l’attacco è parte integrante dell’intervento artistico. Più ci pensavo e più mi sembrava il luogo adatto per questa serie di opere. Alla fine è diventato l’unico posto possibile in cui agire. In più volevo rendermi conto con i miei occhi se ciò che avevo disegnato rispecchiasse davvero la situazione, se ciò che avevo prodotto riuscisse a raccontare cos’è la vita sulla rotta balcanica. Ho portato tre opere da Roma. L’ultimo giorno ho sentito l’esigenza di realizzarne una quarta: il bambino con le lacrime di ghiaccio.

Ci racconti come è andata lì, in Bosnia?
Sono partita abbastanza all’avventura e probabilmente sono stata fortunata in relazione ai controlli attraverso i quali sono passata. L’esperienza lì mi ha completamente svuotato di energie, sia fisicamente che mentalmente. Non si può raccontare a parole la sensazione che ho provato, parlando con tanti uomini e donne che mi hanno fatto vedere le foto dei pestaggi subiti dalla polizia. È qualcosa che prende allo stomaco e te lo stritola vedere le condizioni disumane in cui queste persone resistono al freddo, sopravvivono senz’acqua, cercano rifugio in edifici fatiscenti, privati di tutto. Il mio più grande timore era di non essere capita, di venir percepita come una che andava lì a fare turismo, a occuparsi degli affari altrui. Invece, da questo punto di vista, è…


L’articolo prosegue su Left del 26 febbraio – 4 marzo 2021

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