L'ultimo report della associazione Terra fa luce sulle inaccettabili condizioni di lavoro dei braccianti nel Sud Europa. Tracciandone le analogie, da Paese a Paese. E indicando alcune possibili soluzioni

«Ho lavorato dalle 9-10 del mattino alle 5 del pomeriggio per piantare cavolfiori. Non so quante piantine c’erano in ogni cassetta ma una cassetta copriva un intero filare. E per ogni cassetta ci davano 1,5 euro che dividevamo in tre. Alla fine della giornata, scontati i 5 euro del trasporto, mi restavano 15 euro», spiega una bracciante. «Siamo in grado di ispezionare efficacemente gli impianti di confezionamento o le serre, ma sui terreni è tutta un’altra storia. Un pezzo di terra può essere affittato da qualcuno e poi affittato a sua volta ad una terza persona. A quel punto chi è responsabile per i lavoratori irregolari? Chi è il loro datore di lavoro?», aggiunge un ispettore del Lavoro.

Potrebbero essere testimonianze raccolte in uno dei tanti epicentri dello sfruttamento del lavoro in agricoltura disseminati nello Stivale. Principalmente nel Mezzogiorno, ma – come ormai sappiamo – non solo lì. E invece no. La bracciante, Catalina, nicaraguense senza permesso di soggiorno, lavora nei campi di Murcia, la regione spagnola posizionata ad Est, che coi suoi quasi 470mila ettari di terreni agricoli è conosciuta come la huerta d’Europa, l’orto d’Europa. Mentre l’ispettore, Petros, lavora in un’unità che opera sotto la guida del ministero del Lavoro del governo greco. Entrambi i nomi, per ovvie ragioni, sono fittizi.

Le loro testimonianze parlano di una realtà, quella del lavoro nero nelle campagne, omogenea nel Sud del Vecchio continente, pur considerando alcune peculiarità particolari. E che necessiterebbe di risposte immediate, forti, non solo in ambito nazionale ma pure sul piano europeo. A raccogliere queste voci, assieme ad analisi, dati, reportage dal campo, ci ha pensato l’associazione ambientalista Terra!, all’interno del recentissimo report: E(U)xploitation. Il caporalato: una questione meridionale. Italia, Spagna, Grecia. Autori delle tre sezioni, con focus sui rispettivi Paesi: Fabio Ciconte e Stefano Liberti, Mariangela Paone, Apostolis Fotiadis, con la curatela di Maria Panariello.

Il quadro che emerge con estrema chiarezza si compone di drammatiche consonanze: «Innanzitutto c’è un livello diffuso di lavoro grigio che fa paura – spiega a Left Fabio Ciconte, portavoce di Terra! -. In Italia ci sono aziende che pagano i lavoratori senza segnare tutte le giornate. In questo modo i datori risparmiano, hanno in mano un pezzo di carta, il contratto, utile in caso di controllo e possono tenere sotto scacco i lavoratori immigrati che hanno bisogno di dichiarare un certo reddito per restare in Italia o per chiedere il ricongiungimento familiare. Ma dinamiche simili si riproducono nel resto dell’Europa del Sud. C’è poi il cottimo. C’è la questione della tratta e degli abusi sessuali sulle lavoratrici agricole migranti. C’è la crescita delle agenzie interinali, che in Spagna somigliano a caporalato legalizzato, e catalizzano il 75% dei contratti del settore. C’è poi la figura del caporale, presente soprattutto da noi e in Grecia, dove viene chiamato mastoura. Ci sono agenzie di certificazione che non riescono a garantire il rispetto dei diritti dei braccianti. Ci sono da un lato le difficoltà dello Stato nel controllare il rispetto delle leggi e, dall’altro, i vuoti normativi».

Ultimi ma non ultimi, ci sono gli squilibri economici di filiera. La madre di tutte le disuguaglianze, le storture e le violenze nei campi del Mezzogiorno europeo. «Assistiamo alla presenza di un panorama agricolo fatto spesso di piccoli produttori, atomizzato, incapaci di farsi valere di fronte ai grandi oligopoli della distribuzione che possono così imporre le proprie condizioni e di una cultura imprenditoriale ottocentesca – descrive Ciconte -. Laddove queste circostanze si sommano, si creano inevitabilmente sacche di sfruttamento».

Volete un’immagine per sintetizzare tutto ciò? «Questa estate – aggiunge ancora il portavoce – proprio nei giorni in cui moriva Eleazar Blandón, bracciante nicaraguense che lavorava a cottimo sotto il sole a 44 gradi alla raccolta di cocomeri, in Italia una delle più grandi catene di discount lanciava la promozione delle angurie a un centesimo al kilo. I due fatti non sono correlati ma restituiscono la misura delle sperequazioni nella filiera».

Non tutto, però, è perduto. Il rapporto, visto in controluce, presenta anche un elemento incoraggiante. Se il problema del caporalato è europeo, la risposta può e deve essere collettiva, oltrepassando i confini nazionali. Per questo è importante fare rete, unire lavoratori e opinione pubblica, per fare pressing affinché si allarghi il terreno dei diritti.

A questo proposito, è bene ricordare che entro maggio i Paesi Ue dovranno recepire la direttiva sulle “pratiche sleali” che punta ad arginare le pesanti condizioni che la grande distribuzione organizzata impone ai fornitori. Mentre la legge per dire stop alle aste al doppio ribasso, fortemente voluta da Terra!, si trova al momento alla Camera in seconda lettura. «L’iter, se ci fosse la volontà politica, si potrebbe concludere in pochi giorni», dice Ciconte.

Si tratta di partite importanti, per la tutela dei diritti dei lavoratori. E non sono però disconnesse, come si potrebbe pensare, rispetto alla lotta contro la crisi ambientale. «Sono due facce della stessa medaglia – chiosa il portavoce di Terra! -. L’agricoltura è uno dei settori che ha più responsabilità come emissioni di CO2 e violazioni dei diritti umani. Dobbiamo riuscire a tenere unite le due tematiche, perché non sempre accade. Sulla Politica agricola comune europea, la Pac, stiamo vincendo da un lato e perdendo dall’altra. Riusciremo probabilmente a far inserire la clausola sociale – che prevede l’erogazione dei fondi previo rispetto dei contratti dei lavoratori – ma non le clausole ambientali, finendo col replicare lo schema precedente gradito all’agroindustria».


L’articolo è stato pubblicato su Left del 26 febbraio – 4 marzo 2021

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