A dieci anni dal sisma che provocò il disastro nucleare siamo tornati dove tutto ebbe inizio. Oggi qui c’è ancora chi tenta di rifarsi una vita e la disattivazione dei reattori appare un traguardo lontano. Neanche l’aumento del favore popolare per l’energia pulita riesce a smuovere logiche consolidate

Adesso si può andare in giro liberamente quasi dappertutto, nella ex “zona proibita”. E fa impressione, per chi questi posti li ha visti durante l’apocalisse, vedere che tutto, e al tempo stesso niente, è cambiato. Lungo la litoranea che dalla città di Iwaki porta alla centrale di Fukushima Dai-Ichi, si trova di tutto: ruderi abbandonati, terreni incolti, depositi a cielo aperto di detriti e sacchi di terra contaminata, raschiata dai campi ma poi lasciata lì, ammucchiata, perché alla faccia della solidarietà nazionale, nessuna provincia, nessuna regione la vuole sul suo territorio, come aveva chiesto il governo. Ma si vedono anche villette appena restaurate, orticelli coltivati, qualche bottega che sembra aver riaperto, perfino un ristorante di cucina italiana, nuovo di zecca. Un lungo striscione sintetizza la situazione: “Tornare o non tornare: che fare?”.

«Noi giapponesi siamo gente paziente, spesso testarda. Non ci rassegniamo alla sconfitta – spiega Hideo, 68 anni, ex dipendente della Tepco (Tokyo electric power company) in pensione e che ora fa l’allevatore di ovini – ma a tornare, a crederci ancora siamo solo noi vecchi. I giovani, compresi i nostri figli, se ne sono andati per sempre. Queste sono terre destinate a morire, siamo gli ultimi abitanti». Hideo è uno dei sopravvissuti alla tripla catastrofe. Era nel suo ufficio di Namie, quando alle 14:46 dell’11 marzo 2011 arrivarono le scosse del terremoto. Forti, fortissime, senza precedenti. Ma siamo in Giappone e i terremoti sono all’ordine del giorno. Le scosse sono sì, un po’ più forti del solito, qualche scaffale cede, ma lui non si scompone più di tanto e non pensa nemmeno a chiamare la moglie, a casa, per sapere se tutto è a posto. La chiama però qualche minuto dopo, quando arriva l’allarme tsunami e lui è già in macchina, terrorizzato, diretto verso casa, mentre dallo specchietto osserva l’ondata di fango e detriti che avanza.

«Sembrava un film – racconta – guardavo dietro di me, l’acqua era sempre più vicina, ho avuto, per la prima volta nella mia vita, davvero paura». La moglie non risponde, i cellulari non funzionano più, ma la trova a casa, assieme alla suocera, sedute a guardare la Tv, che invece ancora funziona. Non c’è ordine di evacuazione, lo tsunami, che più a nord ha travolto centinaia di chilometri di costa e ha già causato migliaia di morti, pare si sia fermato. La loro casa è salva. Ma dopo poche ore arriva il terzo allarme, il nemico invisibile. L’emergenza nucleare. Con tutti i ritardi, le omissioni, le menzogne tipiche degli incidenti nucleari. Loro non vogliono evacuare, resistono un paio di giorni. Poi si arrendono. Lasciano la suocera, che non ne vuole proprio sapere di andarsene e si trasferiscono a Koriyama, nel centro di evacuazione allestito dal governo all’interno del Palazzo dello sport. Da lì, dopo un paio di settimane, finiscono in un…


L’articolo prosegue su Left del 5-11 marzo 2021

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