Lettera nr. 16
Prof. Dr. Segismundo Ramiro von Klatsch
Tortitas, Patagonia
Egregio e ammirato professore: devo confessarle con rammarico che ultimamente sono stato un po’ seccato con Lei per non avermi invitato a condividere il suo spericolato viaggio a Baghdad.
Questa scomoda situazione sarebbe stata evitata se avesse convinto il suo amico Luis Sepúlveda a non andare in Iraq per presentare il suo libro Storia di una balena bianca, recentemente tradotto in arabo mesopotamico. È insolito che, prima di accettare l’invito a presentare l’opera nel principale seminterrato culturale di Baghdad, non lo avessero avvertito che i lettori di quella nazione non hanno mai visto una balena bianca, nemmeno in una delle stravaganti fotografie che Daniel Mordzinski pubblica spesso negli opuscoli su Animal Planet. Solo alcuni scienziati di quel mondo arido si vantano di aver trovato nella valle del Caucaso i resti ossei di un cetaceus rex, una balena del tardo Pleistocene, forse trascinata dal Mar Baltico da qualche mammut appesantito dall’irritante solitudine del tempo.
Per aggiungere la beffa al danno, egregio maestro, la presentazione del libro è stato un completo fallimento. Mi dica chi, con un po’ di buon senso, non avrebbe potuto sospettare che Ali Hussain Shaabaan e Jihad Ahmad Diyab, gli intellettuali siriani che hanno accompagnato l’autore cileno nella presentazione del libro, fossero sotto stretta sorveglianza dei servizi segreti yankee-iracheni, agli ordini dell’ossessivo colonnello Mohamed el-Zalame, pronto a rapirli di sorpresa. E come previsto, così è successo. Un commando d’élite iracheno entrò, scalciando spietatamente a destra e sinistra i cuscini fioriti del seminterrato pieni di avidi lettori, e tutto senza dire una parola, nemmeno quelle che sono riservate ai detenuti neri di Birmingham. Dopo aver urlato «lasciate i libri e mettete le mani dietro il collo dove possiamo vederle!» li incappucciarono tutti e tre – Shaabaan, Diyab e Sepúlveda – e li caricarono a spintoni su un furgone blindato con destinazione aeroporto di Baghdad. E senza poter cenare, farsi un bagno e radersi li imbarcarono su un Hercules 130 che li ha portati direttamente alla prigione di Guantanamo, nella lontana isola di Cuba.
Nella lettera n. 17, che mi ha portato il postino Miguel Strogonof dalla Patagonia, Lei caro professore, trascrive la conversazione premonitrice che ha avuto con Don Luis al Babylon Hotel di Baghdad. Appoggiati tra le macerie del bar mentre bevevano un spiritoso tè verde, il maestro gli avrebbe detto con quella voce rauca e grintosa che lo caratterizza: «Professore von Klatsch, se a causa di quei giochi del destino, mi accadesse qualcosa di imprevisto a Baghdad, provi a mettersi in contatto con i fratelli Grim e dica loro che la password in questa questione sarà Guantanamera. Solo quello. Loro capiranno e sapranno cosa fare».
Cercando di rispondere alla sua richiesta, illustre professore, ho girato il nord argentino alla ricerca dei gemelli Grim, finché li trovai al Festival de Payadores Postmodernos, organizzato ogni anno dal nostro collega e amico Güendolyn Giardinelli nell’Arena Resistencia Park del Chaco. In un incontro segreto nei camerini della tenda, parlai con Caino e Abele Grim della missione quasi impossibile che avremmo dovuto affrontare, con il rischio persino di perdere la vita: trarre in salvo da una losca prigione dei Caraibi «al Lucho», come loro chiamano il progenitore delle loro vite: condannato all’ergastolo per aver introdotto in Iraq materiale anti nordamericano, camuffato da letteratura per bambini. Dopo aver pianto urlando, come fanno di solito i gemelli disperati quando gli tolgono il ciuccio, i Grim già più calmi dissero all’unisono: «Sì, professore, è nostro dovere». E senza ulteriori indugi, si misero a pianificare il salvataggio che è stato, caro professore, di un’audacia insolita. Il veicolo che li avrebbe dovuto portare alla loro destinazione segreta era una mongolfiera progettata da Caino Grim con il prezioso aiuto di Güendolyn Giardinelli, che, come Voi e io sappiamo, è il discendente ed erede di Jacques Montgolfier, l’inventore di questi dirigibili gonfiati con fumo da legna di bosco, cioè con elio. In un discreto spazio aperto alla periferia di Resistencia, attrezzarono la cesta della mongolfiera con dei letti, sedie di canna in stile Bauhaus con cinture di sicurezza, un angolo cottura con una griglia per fare hamburger alla brace e un armadio per gli strumenti musicali, cannocchiali ad alta definizione e il diario di bordo per registrare le ultime prodezze dei fratelli Grim. E niente di più. Non restava che abbellire la mongolfiera, che fu battezzata Arcobaleno, mentre la dipingevano con i colori allegri della diversità. Prima di alzarsi e partire sotto il cielo stellato all’alba, i gemelli Grim acquisirono familiarità con la bussola aerea che permise loro di volare senza particolare paura sull’Atlantico, mentre bevevano mate e canticchiavano tanghi ottimistici, alternandoli con la malinconica samba della Pampa. A metà strada, già nell’immensità dell’Amazzonia, splendidamente verde e quasi sempre in fiamme, si verificò un notevole gesto di fratellanza, che hanno registrato nel diario di bordo. È successo quando avvistarono un villaggio di indiani Guanabara che celebravano il quindicesimo compleanno della figlia minore del capo, e Abele, per ravvivare i festeggiamenti, ha avuto la felice idea di far cadere una delle dieci bottiglie di vino Yauquen Chardonnay de Mendoza che portavano nel cesto. Un gesto che i guanabara ringraziarono con un frastuono sfrenato, agitando mani, lance e cerbottane con dardi velenosi per dare la caccia ai bolsonari, detestabili predatori che, dai tempi di Álvarez Cabral, hanno reso la vita impossibile all’Amazzonia indigena. I guanabara placarono le infinite manifestazioni di affetto solo quando il palloncino multicolore passò su di loro e uscì dalla vista in direzione delle Guyana.
Egregio Prof. Von Klatsch: quattro giorni dopo l’Arcobaleno entrò nello spazio aereo che avrebbe dovuto essere cubano e che fino ad ora non ha alcuna intenzione di esserlo.
Un centinaio di metri più in basso, davanti agli occhi attoniti dei fratelli Grim, c’era la terrificante prigione di Guantánamo che ospita centinaia di ostaggi dall’Asia occidentale. Tra loro, gli intellettuali siriani che hanno presentato la Storia di una balena bianca nel seminterrato culturale di Baghdad e anche lo stesso autore cileno del famoso libro.
Davanti allo sguardo inquietante dei centoquarantotto marines che facevano la guardia alle torri di vigilanza, l’Arcobaleno iniziò a scendere lentamente fino a rimanere statico a un metro dal pavimento della prigione. Venti minuti che a Caino e Abele parsero eterni, se non fosse stato per l’apparizione inaspettata della massima autorità di Guantánamo. Era il comandante Anthony Benny Colgate in tenuta di fatica, determinato a sbarrare la strada al prigioniero trecento trentatré, che, seguito dai due siriani di Baghdad, cercava di avvicinarsi all’Arcobaleno che fluttuava spudoratamente in mezzo al cortile.
Il prigioniero trecento trentatré fissò senza pietà il suo sguardo ipnotico di fuoco mapuche, negli occhi pieni di malizia dall’Afghaniswtan del comandante Colgate, finché non riuscì ad ammorbidirlo e trasformarlo in un impotente e triste killer sentimentale.
In un impeto di ragionamento malinconico, con le lacrime agli occhi, quel biondo intenso, padre di tre bambine da madre cherokee, che attendevano la sua pensione in un pacifico allevamento di maiali dell’Arkansas, gli chiese con il tono triste di chi ha perso troppe guerre: «Che ne sarà di noi domani, Mr. Sepúlveda?». Come se avessero mantenuto una fiduciosa amicizia attraverso le sbarre della cella, il prigioniero trecento trentatré, che non era altro che l’autore della Storia di una balena bianca, rispose con tremula fermezza: «Me lo chiede, comandante? È ora che voi vi arrangiate come potete. Ma le anticipo che, da me, non avrete nessuna collaborazione».
Senza perdere altro tempo, “Mr. Sepúlveda” seguito dai suoi due compagni di sventura, saltarono dentro la canasta con sorprendente agilità.
Nel vasto cortile circondato da filo spinato elettrificato, si sentiva a malapena il ronzio dell’autopilota che teneva in posizione stabile l’Arcobaleno. Fu allora, già con i fuggiaschi in salvo, che Caino abbracciò la sua ribelle chitarra spagnola e Abele il suo affettuoso charango di Jujuy, per darsi a suonare quella versione libera per i payadores di Guantanamera che cominciò a essere canticchiata dalle guardie armate dalle torri di sorveglianza. Cucinati a fuoco lento dal sole dei Caraibi, i Marines battevano le mani con entusiasmo, ma era chiaro che non capivano un accidente del testo improvvisato dai Grim nella cesta della mongolfiera, pronta a decollare.
(Le guardie in coro) Guantanamera/ Guajira Guantanamera/ Guantanameeera, guajira guantanamera
(Caino) Siamo gemelli sinceri/ che non perseguono la fama/ E prima di morire, vogliamo liberare i fratelli dell’anima (le guardie in coro) Guantanamera/ guajira guantanamera (Abele) Partiamo oggi per sempre/con i fratelli dell’anima/ lo faremo con molta calma/ e non meno dissimulazione… (Caino) …perché se non lo facciamo/ quegli yankees figli di joputa/ ci romperanno il culo (le guardie in coro) Guantanamera/ guajira tralalá tralalá/ tralaláaaaa.
Sepúlveda interruppe gli abbracci e senza perdere la compostezza pronunciò il memorabile ordine del suo amico Vittorio Gassman: «E ora, ragazzi, resta solo una degna uscita: Scappiamo!».
Sulla via del ritorno, caro professore von Klatsch, senza che nessun caccia McDonnell Douglas F-15 Eagle disturbasse il pacifico girovagare del palloncino multicolore, per il capriccio insistente del Maestro Sepúlveda, l’Arcobaleno discese su El Idilio, un remoto villaggio dell’Amazzonia Ecuadoriana dove vivono gli indiani Shuar, per stringere in un abbraccio il caro amico Antonio José Bolívar Proaño, padre delle bellissime fanciulle gemelle Lameré e Yopatí Proaño. Come è noto attraverso una delle storie del suo amico, Antonio José ha sposato Mamaré, una donna Shuar che non sapeva baciare, quindi prima di andare a dormire, combatteva l’insonnia della vecchiaia leggendo romanzi d’amore a lieto fine.
Quando vide saltare a terra al maestro che lo aveva reso celebre in sessanta lingue, Antonio José non trovò parole per esprimere la sua gratitudine per l’invio che gli aveva fatto da Gijón, un pacco che ha percorso in canoa l’intero Rio delle Amazzone con delle opere complete di Corín Tellado. Nel frattempo, affascinati dalle gemelle Proaño, gli intellettuali siriani cominciarono a dubitare tra seguire quel pericoloso viaggio verso il nulla o restare a vivere in quel villaggio dove nessuno sapeva nulla di guerre fratricide né di inquinamenti notturni. «Io da qui non mi muovo», dicono che avrebbe detto Ali Hussain Shaabaan mentre la formosa Yopatí Proaño gli mordicchiava l’unico orecchio che li avevano perdonato a Guantánamo. Da parte sua, Jihad Ahmad Diyab abbracciò con calore amazzonico la gemella rimasta e in una lingua che comprese solo suo fratello, disse: «Neanche io». E mettendo da parte i ricordi polverosi delle macerie siriane, Ali e Jihad salutarono tra abbracci e piagnucolii l’equipaggio dell’Arcobaleno rimanendo per sempre al El Idilio, dove vivono felicemente educando sei bambini Shuar e fabbricando bombe all’uranio migliorato al vapore per fare saltare in aria le segherie clandestine dell’Amazzonia ecuadoriana.
Cosa vuole che le dica, ammirato professore von Klatsch? Sento che abbiamo più che adempiuto al salvataggio del suo amico Sepúlveda. Sia Caino che Abele Grim dimostrarono di avere delle palle come le uova di struzzo africano, con la dimostrazione di coraggio e solidarietà messi in evidenza durante il viaggio. E continuarono a farlo, perché dopo essersi liberati degli scomodi siriani, i fratelli Grim rifornirono l’Arcobaleno di mandioca, pane del villaggio fatto in casa, peperoncini piccanti e mezzo cinghiale disossato, che “el Lucho” Sepúlveda avrebbe trasformato durante il viaggio in hamburger amazzonici alla brace. Per fortuna nel cesto c’era ancora abbastanza vino di Mendoza per coprire la traversata dell’Atlantico. Da quanto ho potuto dedurre, affettuoso Professore, l’Arcobaleno sarebbe entrato in Europa attraverso lo spazio aereo del Portogallo, sorvolando la riserva di caccia dell’Infanta Manoela Ribeirao do Varzim e Minas Gerais, potendo da lì entrare sani e salvi nella madrepatria del prosciutto iberico. Quale non sarebbe stata la sorpresa dell’equipaggio dell’Arcobaleno, stimato professore, quando già in cielo spagnolo e costeggiando il Mar Cantabrico, trovarono migliaia di asturiani che guardavano passare a bocca aperta il palloncino colorato dei fratelli Grim. Fu mentre sorvolava la periferia di Gijón quando, senza staccarsi dal potente cannocchiale, che “el Lucho” fece un balzo pericoloso che li scosse come una foglia nella tempesta e gridò come un pirata cileno: «Per le corna di Belzebú Aznar! Guardate ragazzi, quella che vedete laggiù è Pelusa, mia moglie!». Infatti, mille metri più in basso, tra il possente fiume Piles e la spiaggia nudista di San Lorenzo, se facevi attenzione, poteva vedersi la mitica Pelusa Yáñez Pinzón, l’autrice del tango Senza Ritorno, che innaffiava le orchidee e i margaritoni del giardino mentre salutava con entrambe le mani. «Ce ne andiamo, amore mio! Ma torneremo e saremo migliaia!» gridò “El Lucho” con tutte le sue forze, soprattutto nella speranza che lei lo ascoltasse e, se fosse possibile, gli credesse. Con l’intenzione di dare un’atmosfera più consona a questa storia, i fratelli Grim iniziarono a suonare una versione estesa per grancassa e charango di El Condor Pasa, che accompagnò l’Arcobaleno fino alla fine del suo prodigioso viaggio verso il nord d’Italia, sebbene sospetto, meritevole Professore von Klatsch, che questi vagabondi incalliti si fossero persi di vista ben oltre la frontiera scomparsa.
Con la convinzione che morire sia restare un po’
l’abbraccio per sempre
Prof. Orson Castellanos
*Traduzione di Gabriela Pereyra*
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