Presupporre che ci sia un valido consenso quando la vittima è stata indotta a bere alcolici o è stata drogata, va contro ogni logica, prima ancora che contro il diritto

Il concetto sul quale deve ruotare tutta la legislazione sui diritti sessuali è il “consenso”.
Presupporre che ci sia un valido consenso quando la vittima è stata indotta a bere alcolici o è stata drogata, va contro ogni logica, prima ancora che contro il diritto.

Il consenso, in sede civile, ad esempio, si ritiene che sia viziato rispetto alla sottoscrizione di un contratto se non è stata sufficientemente esplicitata una clausola.
In sede penale, in relazione ai reati sessuali, invece, c’è una legislazione che deve essere modificata perché lascia spazio a troppe aberrazioni.

Eppure non tutte le legislazioni si sono evolute in relazione al consenso, e per molte, perché possa concretizzarsi un reato sessuale, si ritiene che sia necessaria la materializzazione di atti di violenza o di minaccia.

Nella legislazione italiana il presupposto della violenza e della minaccia è il criterio centrale per qualificare il reato di violenza sessuale, e da questa impostazione deriva che le manifestazioni di dissenso da parte della vittima, se espresse con una insufficiente determinazione ovvero in presenza di una incapacità totale o parziale a esternare pienamente il dissenso, conducono finanche ad attribuire alla vittima parte della colpa.

Diversamente dai modelli normativi basati sulla violenza o sulla minaccia, come quello italiano, ci sono i modelli incentrati sul consenso per cui se la vittima non ha espresso validamente il suo beneplacito c’è sempre il reato di violenza sessuale.
Esiste una terza ipotesi di modello legislativo, che pone nella centralità del reato il consenso limitato, nel senso che – sarebbe più corretto dire – il reato si compie nel dissenso, ovvero si richiede una valida espressione della volontà contraria all’atto sessuale.

Se la legislazione italiana si è articolata su una qualificazione del reato basato sulla violenza e sulla minaccia, si è comunque avuta una giurisprudenza che ha espresso una maggiore attenzione verso le manifestazioni di dissenso, ad onta di alcune pronunce che hanno fatto il verso all’inquisizione medievale.

La Cassazione, con la sentenza n.4532/2008, ha statuito in maniera assai innovativa rispetto alle qualificazioni del consenso e del dissenso, ma il potere legislativo, supino ad una cultura retrograda, non ne ha colto il portato qualificante ed emancipatorio.
Nella richiamata sentenza i giudici della Cassazione hanno sostenuto che il consenso al rapporto sessuale debba essere pacifico e ininterrotto, trattandosi di una sfera soggettiva in cui sono tutelati, nella loro massima ampiezza, la dignità e la libertà, sia fisica che psichica della persona.

Secondo la Corte non è necessario che il dissenso della vittima si manifesti per tutto il periodo di esecuzione dei delitto, essendo sufficiente che si estrinsechi all’inizio della condotta antigiuridica, e ciò vuol dire che anche quando il rapporto sessuale è iniziato con un consenso del partner, se è intervenuto un dissenso e l’imputato non ne ha tenuto conto, non può invocare a sua discolpa il consenso iniziale.

La valutazione del consenso agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell’intero rapporto senza soluzione di continuità, e se il consenso originariamente prestato viene meno per un ripensamento, la prosecuzione dell’atto sessuale integra il reato di violenza sessuale.

La sentenza della Cassazione, tuttavia, contiene una ulteriore ipotesi qualificante in relazione al consenso che, secondo la Corte, deve riguardare anche la condivisione “delle forme o modalità di consumazione dell’amplesso” e ciò significa che se il consenso è stato espresso senza prevedere la eiaculazione nella vagina, o se è stato espresso con l’uso del profilattico e poi il profilattico è stato tolto, si consuma il reato di violenza sessuale.

Il consenso deve essere espresso non solo in riferimento all’atto sessuale, ma deve essere espresso anche in relazione al concepimento.
Il mancato uso del profilattico quando determina una gravidanza indesiderata, deve costituire specifica ipotesi del reato di violenza sessuale.

Biologicamente la fecondazione è subita e non è attiva, è lo spermatozoo che feconda mentre è l’ovulo che è fecondato, dunque il consenso alla gravidanza deve essere equiparato al consenso all’atto sessuale, e ove non sia stato validamente espresso, deve essere sanzionato penalmente.

Una riforma del codice penale in tale direzione si rende urgente anche in considerazione della pratica, sempre più diffusa, chiamata stealthing, che consiste nel togliere il preservativo all’insaputa della partner per indurre una coercizione riproduttiva.
Viene esercitata anche da uomini su altri uomini, con lo scopo di stabilire una supremazia maschile, incuranti dei rischi e sfidando la possibilità di contagio da malattie sessualmente trasmissibili.

Ci sono finanche comunità di uomini ideologicamente protesi a “difendere” il “diritto a diffondere il seme” e disposti perfino ad elargire consigli su come fare per imporre il loro seme a partner non consenzienti.

L’assenza del preservativo senza il consenso della partner, trasforma il rapporto sessuale consensuale in rapporto sessuale non consensuale.
Se non c’è consenso all’atto sessuale è stupro.
Se non c’è consenso alla gravidanza indesiderata, è stupro.

In Inghilterra nel Sexual Offences Act tra le ipotesi di reato c’è quella di togliersi il preservativo o bucarlo senza il consenso della partner, mentre in Australia sotto un profilo normativo, la fattispecie non è ancora specificamente prevista nel Crimen Act (la legge penale di Vittoria), ma le Organizzazioni governative sulla pianificazione familiare hanno già reso pubblici gli esiti delle loro ricerche, sostenendo che il vuoto legislativo debba essere al più presto colmato, soprattutto in difesa delle sex-workers che più subiscono la coercizione riproduttiva, e dunque il rapporto sessuale senza espresso consenso all’assenza del preservativo deve essere considerato reato sessuale.

Tornando al codice penale italiano, l’attuale formulazione dell’art.609 bis c.p. è la seguente:
“Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.”

Dovrebbe essere modificato come segue:
“Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali, O A SUBIRE UNA GRAVIDANZA INDESIDERATA:
1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona;
3) CONTRO LA VOLONTÀ RICONOSCIBILE DELLA VITTIMA.

Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.”
Una formulazione che sollevi la donna dalla responsabilità della gravidanza indesiderata, spostandola sul fecondatore, avrebbe come prevedibile effetto immediato e conseguente quello di modificare lo stigma che colpevolizza socialmente la donna che “si è fatta mettere incinta”.

Non solo si deve superare la qualificazione del reato attraverso la violenza e la minaccia, non solo si deve superare il ricorso al valido dissenso, ma occorre fare un ulteriore salto qualitativo e impostare la legislazione penale sulla cultura del consenso.

Non si può pensare ad un atto sessuale come qualcosa da cui difendersi, ed è ciò che lascia intendere lo slogan “no vuol dire no”, perché diventa la risposta ad una cultura che si dà per scontato che sia violenta.

Si deve ribaltare il paradigma della difesa per impostare la regola dell’accettazione che si riassume, piuttosto, nel consenso validamente espresso per cui “sì vuol dire sì”.

*L’autrice: L’avvocato Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea e fa parte del coordinamento nazionale di Potere al popolo*