Nicola Lagioia ha pubblicato nell’ottobre 2020 con Einaudi un romanzo, La città dei vivi, in cui ricostruisce, con ampia documentazione, una tragedia contemporanea. Nella notte tra il 4 e 5 marzo del 2016 in un quartiere della periferia romana un ragazzo di ventitré anni, Luca Varani, muore assassinato da due giovani di buona famiglia. L’omicidio non sembra avere un movente. La cornice dei fatti è quella di una città con il Comune commissariato a causa di una indagine giudiziaria nota come Mondo di mezzo. Roma invasa da topi e gabbiani, ma pure da fiumi di coca che, dopo essere stata negli anni 70 la droga dei ricchi, adesso fa da collante di un contesto sociale con meno morti, ma più violento. In effetti, se ne paventa negli atti un uso sconsiderato: «Pare si siano sparati 28 grammi di cocaina in tre giorni». Questi i toni sui giornali e nel web: «Manuel Foffo, ombroso fuoricorso figlio di un ristoratore dai modi spicci, stringeva amicizia con Marco Prato, disinibito figlio di un manager culturale, e insieme si divertivano a torturare un ventenne adottato da due ambulanti della Storta. Tre ceti sociali, tre fasce di reddito, tre diverse zone della città». Ma poi si aggiunsero elementi tali per cui Luca divenne vittima etero di due gay frustrati. Dunque, «l’omicidio di classe si contaminò con il tema dell’orientamento sessuale». La vicenda più pasoliniana degli ultimi decenni.
Il volume cattura il lettore con la suspense che, se da una parte si ripropone come nell’antica tragedia di Euripide, dall’altra coinvolge con vene più moderne.
Risuonano ad un tratto note di altro spessore. La password per accedere all’ascolto è quella del conflitto generazionale: boomers versus millennials. Emergono profili di adulti con una «colpa anagrafica, oggettiva»: frastornati da incontrollabili mutamenti del mondo circostante, essi difendono la loro compiutezza familiare e sociale arroccandosi in posizioni poco negoziabili. Alcune giovani menti in divenire possono reagire a questa scarsa empatia con vite parallele tessute a mo’ di arazzo che occulta un malessere profondo. Sta di fatto che, nonostante qualche strappo della tela, nessuno dei genitori coinvolti si era accorto di nulla: i figli erano ragazzi a modo ed era inaccettabile che una certa stampa minacciasse di calpestare la loro reputazione. Per meglio intendere, dopo aver letto sul blog le riflessioni del padre, Lagioia scriverà: «All’improvviso Marco Prato mi sembrò la persona più sola del mondo». Altro indizio di ascolto è la conversazione con il colonnello a cui era stato assegnato il caso. L’ingegnere investigatore dice di Marco e Manuel: «Si sono incontrati e questo è il problema». Ora, da che mondo è mondo i ragazzi si incontrano, e certe volte pure per fare danni. Ma qui, una persona informata dei fatti, evidentemente sa che si tratta di due soggetti che non godevano già da prima di un buono stato di salute mentale. Gli strappi di quella tela di forzata normalità, se pure in maniera differente l’uno dall’altro, c’erano stati; forse non erano stati considerati nella loro gravità. Così, alla festa di capodanno si realizza quanto non si sarebbe dovuto: le due giovani menti psicotiche «si riconoscono» e cadono in «quella cosa che non riescono a fermare»: una dinamica psichica pulsionale gravissima di introiezioni, identificazioni e proiezioni che si illuminano infine nel delirio condiviso di un deus ex machina da portare sul palco: la vittima.
Partono una ventina di whatsapp per assegnare la parte. Dopo qualche declinazione di invito e provino mancato da chi poi si sentirà uno scampato, Luca Varani, sventurato, rispose.
Al suo comparire, i due si guardano e sentono «con precisione» di avere di fronte chi li porterà al trionfo. Manuel dirà di avere avuto lì la sensazione che la loro scintilla «era ancora viva».
Imbottiti di un mix incredibile di alcool e coca, i due scellerati vanno in scena.
Il colonnello, saggiato l’interlocutore, gli confida alcune sensazioni nate in lui per lo scempio che gli si parò davanti, e avvalorate da un esorcista che morirà di lì a poco. Partigiano, giurista e collaboratore di diversi psichiatri, padre Amorth aveva dichiarato: «Dietro questo delitto non può che celarsi l’impronta di Satana». L’agnostico narratore oppone a questa una visione più terrena: il male come possessione di menti umane fragili che si incastrano in una lotta disperata di sopraffazione per la sopravvivenza.
La sua scommessa di scrittura è nel riuscire a rappresentare l’impalpabile tensione collettiva suscitata da una scena del crimine di quella portata non come elemento metafisico, ma come sensibilità profonda delle persone. Seminate considerazioni su libero arbitrio e conseguente assunzione di responsabilità, lo scrittore sente alla fine di dover lasciare andare vittima e carnefici. Uno dei quali si suicida in carcere dopo tre mesi. L’altro è condannato a trent’anni. I parenti di Luca, devastati da un senso di inconsolabile ingiustizia. A ripensarci, qualche storia maledetta si era già sentita e la memoria riporta quadri in cui cambiano solo i nomi e le città di sfondo. Un ritorno dell’uguale con a volte un uso dissennato di alcool e sostanze stupefacenti, per un vuoto interno senza fondo. Quando tutto accade nel complice silenzio di tanti, non resta che la valutazione postuma di ciò che consegue a quel crescendo di attività psichica annullante che genera la distruttività dell’umano.
Sia negli interrogatori che nelle cartelle cliniche o relazioni peritali, gli inquisiti risponderanno senza resistenza, come a ristabilire una normalità. Un comportamento adeguato in drammatico contrasto con l’incapacità di riconoscere violenze compiute in totale gratuità. La mancanza di un movente razionale, criminale. Rimandiamo ad altra occasione il tema della capacità di intendere e volere, e qui osiamo invece una comprensione del rompicapo inscenato dai folli rei soffermandoci sulla pulsione di annullamento, così nominata dal suo scopritore Massimo Fagioli. Chiamata in causa da uno stimolo avvertito come insostenibile, essa agisce dissecando l’unità di pensiero e, nel mantenere integre le funzioni cognitivo comportamentali, provoca invece lesioni delle immagini interne e sensibilità profonde. Senza quella integrità affettiva di vedere-sentire, ne risulta gravemente compromessa la capacità di scelta umana nelle dinamiche di relazione.
Si dovrebbe fare prevenzione su questo tipo di possessione, rifiutare una cultura che si attarda ottusamente su una concezione della malattia mentale come peccato da scontare in silenzio tra le mura domestiche. Appassionarsi in tanti e con coraggio a questa dialettica necessaria per recitare una volta per tutte l’eterno riposo del libera nos a malo.
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L’autrice: Maria Rosaria Bianchi è psichiatra e psicoterapeuta
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