Dietro gli espropri che hanno dato origine alle proteste poi represse da Netanyahu con le bombe c’è la Nahalat Shimon, un’azienda immobiliare con sede nel Delaware. Ai palestinesi che si vuole cacciare dalle proprie case non è permesso di conoscere i nomi di chi la finanzia

Il caos a cui assistiamo in questi giorni in Israele e Palestina è terrificante: linciaggi tra civili arabi e israeliani, sparatorie, razzi e bombe hanno infiltrato entrambi i territori, dalla Galilea a Rafah, passando per Tel Aviv. Nella guerra aperta tra l’esercito israeliano ed i militanti armati a Gaza, sono già centinaia i morti nella striscia assediata e si contano anche le prime vittime israeliane. Una spirale di terrore, che rischia di far passare in secondo piano uno dei momenti più significativi nella storia recente del popolo palestinese: le manifestazioni alla Spianata delle moschee (Al-Aqsa), luogo sacro per i musulmani, avvenute tra aprile e maggio. Nato spontaneamente su iniziativa della popolazione civile, questo movimento ha unito in un solo abbraccio i residenti della frammentata Palestina che hanno manifestato per ottenere un risultato cruciale: impedire lo sfollamento forzoso di alcune famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme Est, per far posto a un nuovo insediamento ebraico.
La repressione da parte della polizia israeliana è stata brutale, come denunciato da Amnesty international: centinaia di feriti, inclusi cinque giornalisti, due persone in condizioni critiche e altri tre hanno perso un occhio.
Ma chi si cela dietro il tentativo di sfollamento delle famiglie palestinesi a Sheikh Jarrah? È questa la domanda al quale l’avvocato Sami Ershied sta cercando di trovare una risposta.
Ershied è il legale incaricato dalla famiglia Sabbagh, che dal 1956 ha vissuto in una delle case a rischio di sfratto nell’area di Gerusalemme Est. Ad oggi, 58 persone in totale sono interessate dallo stesso provvedimento: altre sono state già sfollate negli ultimi anni.
Nel gennaio 2019, la Corte suprema israeliana ha rifiutato la loro ultima richiesta d’appello, basata sul ritrovamento di documenti in Turchia, risalenti all’epoca dell’Impero ottomano che, stando ai legali, avrebbero potuto riaprire la discussione in merito all’appartenenza dei lotti contesi con la controparte israeliana. I giudici, tuttavia, hanno deciso di non ammettere nuove evidenze al caso. Il 3 novembre 2020, in piena pandemia, la Corte distrettuale di Gerusalemme ha dato il via libera all’esecuzione dello sfratto: da allora, i membri della famiglia Sabbagh vivono nell’incubo di ritrovarsi per strada.
Ma non è la paura del coronavirus che tormenta Mohammed Sabbagh, il più anziano del gruppo famigliare, né tantomeno l’amara certezza di ritrovarsi senzatetto all’età di 72 anni. Insieme al suo avvocato, Mohammed sta cercando di ricostruire gli eventi storici che hanno portato un gruppo di coloni a reclamare diritti sulle loro case: chi sono queste persone che vogliono sostituirsi a lui, alla sua famiglia e ai suoi vicini di casa?
Nel 2002, un gruppo d’investitori ebraici rappresentati dalla Homot Shalem association ha comprato la terra dove è costruita la casa dei Sabbagh per 3 milioni di dollari da due fondi religiosi.
Pochi mesi dopo, la proprietà è stata ceduta alla Nahalat Shimon Ltd, società registrata nel Delaware, negli Stati Uniti. Il progetto immobiliare punta a “rigenerare” Sheikh Jarrah, costruendo 200 nuove unità abitative al posto delle attuali residenze palestinesi; un nuovo quartiere pensato per acquirenti ebraici. L’agenzia di stampa Jewish News Syndicate ha definito la Nahalat Shimo Ltd una organizzazione non governativa avente come missione quella di recuperare le proprietà perdute dai residenti ebrei espulsi dal quartiere a seguito della guerra del 1948.
I nomi dei dirigenti di Nahalat Shimon Ltd, responsabili delle azioni legali per lo sfratto delle famiglie palestinesi, non sono pubblici. Nel novembre 2019, durante l’udienza di una delle famiglie a rischio sfollamento, il manager di Nahalat Shimon Ltd, Zachi Mamo, ha dichiarato di non conoscere il nome di coloro che mensilmente gli versavano la busta paga.
Sami Ershied è convinto che sia un diritto delle famiglie coinvolte nel processo di conoscere questa informazione prima che qualsiasi tipo di decisione definitiva venga presa in merito al loro caso.
«Chi sta spendendo tutte queste risorse economiche per finanziare l’industria immobiliare degli insediamenti a Gerusalemme Est?», riflette. «Queste sono persone che stanno influenzando la direzione politica e diplomatica d’Israele, e noi non sappiamo chi sono».
«Avevamo una casa a Jaffa»
Le questioni sulla società Nahalat Shimon Ltd sono l’ultimo capitolo della lunga saga che il governo israeliano continua a sostenere essere solo una disputa immobiliare tra privati.
Durante la guerra arabo-israeliana del 1948, le comunità ebraiche che risiedevano nel quartiere sono dovute scappare, abbandonando le case in cui vivevano fin dall’epoca ottomana. A seguito del conflitto, la Giordania prese il controllo amministrativo di Gerusalemme Est e, in cooperazione con Unrwa (Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente), riallocò ventotto famiglie palestinesi, inclusi i Sabbagh, nel quartiere.
«Dopo aver perso la nostra casa a Jaffa (il porto vecchio di Tel Aviv ndr) nel 1948, siamo stati ospitati da alcuni parenti a Gerusalemme fino alla firma di un contratto allocativo stipulato con il governo giordano e l’Unrwa, nel 1956» spiega Mohammed Sabbagh.
Il contratto prevedeva un periodo di tre anni in affitto a Sheikh Jarrah, al termine del quale avrebbero dovuto ricevere un titolo legale di proprietà della casa, mentre la terra sarebbe dovuta rimanere sotto controllo dell’autorità giordana.
Tuttavia, ritardi burocratici hanno fatto sì che le famiglie del quartiere non ricevessero i documenti necessari per provare il loro status legale prima del 1967, anno di inizio della Guerra dei sei giorni, vinta da Israele e culminata con l’occupazione militare di Gerusalemme Est. Nel 1950, lo Stato d’Israele approvò una legge che permette a ogni cittadino ebraico proprietario di un immobile o di un terreno in Israele, abbandonato a causa della guerra, di rientrarne in possesso: dopo l’occupazione militare del 1967, questa norma è stata applicata anche a Gerusalemme Est. Un’opportunità colta da due fondi religiosi che nel 1972 registrarono il terreno su cui si ergono le case di Sheikh Jarrah a loro nome. Tale legge, tuttavia, non è applicabile ai profughi palestinesi provenienti da Gerusalemme Ovest o da altre parti d’Israele, di fatto impedendo a famiglie in situazione analoga ai Sabbagh di ritornare nelle loro città d’origine.
L’avvocato della società Nahalat Shimon Ltd, Ilan Shemor, ha ottenuto che la Corte riconoscesse alle famiglie palestinesi vissute a Sheikh Jarrah per oltre settant’anni il mero status di affittuari, escludendo ogni pretesa sulla proprietà. La decisione si basa su un patteggiamento firmato nel 1982 tra gli allora legali di ambe le parti: un formale riconoscimento della proprietà della terra delle comunità ebraiche, in cambio di un affitto calmierato e protetto legalmente per le famiglie palestinesi fino a tre generazioni.
Tuttavia, i rappresentanti legali dei palestinesi non chiesero il consenso esplicito dei loro assistiti nella fase di negoziazione e, di conseguenza, undici famiglie – tra cui i Sabbagh -decisero di non firmare l’accordo. «I nostri avvocati palestinesi erano in sciopero all’epoca, perché non volevano dare legittimità alla giurisdizione dello Stato occupante, Israele. Quindi la mia famiglia si è ritrovata obbligata ad incaricare un avvocato israeliano. È stato lui a firmare l’accordo d’affitto, senza coinvolgerci. Per alcuni questa decisione era inaccettabile, mio padre decise immediatamente di non firmare. Noi avevamo una casa a Jaffa. Ridateci la nostra proprietà di famiglia, e ce ne andremo da Sheikh Jarrah», spiega Mohammed Sabbagh.

Legge e giustizia
Stando all’avvocato difensore Ershied, gli sgomberi a Sheikh Jarrah sono discriminatori, perché la procedura legale di riferimento non tiene in considerazione che Gerusalemme Est è un territorio occupato. Stando al diritto internazionale, difatti, uno Stato occupante non può trasferire forzatamente i residenti dei territori occupati. Ciò nonostante, dal 2009 nove famiglie hanno perso la propria abitazione, mentre le altre rimaste sono tormentate dal terrore di essere presto sfollati. Agenti di sicurezza privata pagati dalle compagnie immobiliari pattugliano l’area tutto il giorno. Gli spazi pubblici sono stati riempiti da telecamere di sorveglianza, filo spinato e guardie private.
«È difficile vivere essendo considerato come un criminale a casa propria», sospira Mohammed Sabbagh.
Amy Cohen, direttrice delle relazioni internazionali per l’Ong israeliana Ir Amim, interpreta questa situazione in maniera netta: il sistema giuridico israeliano sta seguendo alla lettera la legge e le direttive amministrative per risolvere un contenzioso strettamente politico: «La corte non sta difendendo il diritto, ma agisce seguendo la norma legislativa in senso restrittivo. Mentre le azioni sul campo vengono intraprese privatamente dai coloni, assistiamo anche ad un alto livello di complicità tra il proliferare degli insediamenti e la politica dello Stato». Rafforzando la presenza ebraica a Gerusalemme Est, i coloni stanno di fatto cambiando la demografia a loro vantaggio. Un atteggiamento incoraggiato dal primo ministro Benjamin Netanyahu, attualmente indagato per corruzione e frode, che ha posto il tema di Gerusalemme capitale unica d’Israele come suo cavallo di battaglia.
«Le famiglie ebraiche che hanno perso la propria casa nel conflitto del 1948 hanno già ricevuto un risarcimento: restituire Sheikh Jarrah equivarrebbe a una doppia compensazione, mentre le famiglie palestinesi diventerebbero profughe una seconda volta», conclude Cohen. Le ricadute diplomatiche di tali decisioni potrebbero essere immense. Da anni il Jerusalem Institute for policy research identifica come una seria minaccia per la legittimità internazionale dello Stato d’Israele la costruzione di insediamenti illegali nei territori occupati da parte delle compagnie private. Gli innumerevoli cantieri aperti tramite cavilli amministrativi hanno di fatto deteriorato una situazione già estremamente delicata.
«Tramite le loro azioni, queste società stanno cambiando le carte in tavola in una maniera non necessariamente allineata con gli interessi vitali dello Stato d’Israele» dichiara uno studio accademico pubblicato nel 2010 sulla situazione a Sheikh Jarrah. Undici anni dopo è infatti proprio dalle proteste di quel quartiere che è esploso l’ennesimo conflitto oggi in corso.
In risposta ai recenti eventi, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha richiamato lo Stato d’Israele al rispetto della legge internazionale e chiesto di fermare immediatamente il trasferimento forzato degli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah.
Una posizione in linea con differenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu e con osservatori internazionali dell’Unione Europea, del consolato britannico e di numerose Ong che attendono con regolarità gli appuntamenti nelle aule di tribunali sul caso di Sheikh Jarrah. Nonostante le pressioni internazionali, questi da anni però proseguono senza una sostanziale inversione di rotta. Prima di ottenere un avviso di sfratto, la società Nahalat Shimon offre a ogni famiglia residente un contratto di affitto in cambio del riconoscimento formale dei loro diritti di proprietari sul terreno su cui le case sono costruite. «Se non riconoscono la nostra legittima proprietà, li vogliamo fuori dalle case» ha dichiarato l’avvocato della società, Ilan Shemer, durante la sua arringa in un processo del 2019 per ottenere l’ennesima ingiunzione di sfratto. «Se li evacuiamo, saranno lasciati senza niente … Stanno presentando la stessa difesa e le stesse carte della famiglia Sabbagh, ma i Sabbagh non hanno mai vinto la loro causa».

L’importanza dell’opinione pubblica
La lotta non è finita. I residenti di Sheikh Jarrah, visti gli scarsi risultati ottenuti tramite la diplomazia internazionale, hanno deciso di coinvolgere direttamente l’opinione pubblica. A marzo, quattro famiglie locali hanno ricevuto l’ordine definitivo di sfratto, da attuarsi entro i primi giorni di maggio. In questa circostanza, le famiglie hanno lanciato la campagna #SaveSheikhJarrah, diventata immediatamente trending topic tra la popolazione palestinese e giordana, fomentando le proteste alla moschea di Al-Aqsa durante il mese di Ramadam. I manifestanti hanno posto la questione di Sheikh Jarrah su un palcoscenico mondiale come mai era successo prima.
A seguito delle sempre più numerose manifestazioni nel quartiere e di nuove azioni degli avvocati difensori, il procuratore generale Avichai Mandleblit ha chiesto alla Corte di congelare temporaneamente ogni provvedimento, in modo da esplorare un’eventuale volontà del governo di diventare finalmente parte in causa nel processo e mediare tra i coloni e le famiglie residenti. Nuovi aggiornamenti in merito sono attesi per fine maggio.
Nel frattempo, continua la ricerca per capire chi si cela dietro a Nahalat Shimon Ltd, un dettaglio che potrebbe alimentare il dibattito politico intorno al tema e possibilmente influenzare non solo l’opinione pubblica palestinese ma anche quella israeliana. «Non so se rivelare i nomi dietro Nahalat Shimon possa cambiare qualcosa nel processo: se lo Stato non volesse i coloni a Gerusalemme Est, non durerebbe un secondo» ritiene Cohen. «Particolarmente a Sheikh Jarrah, abbiamo visto un rafforzamento delle procedure di sfratto durante l’amministrazione Trump. Tuttavia, questa informazione può fare la differenza politicamente, quando anche in Israele ci sarà un cambio di governo».
Dopo mesi d’instabilità politica e quattro elezioni in soli due anni, la guerra scoppiata tra Hamas e il governo israeliano sembra aver rafforzato il potere di Benjamin Netanyahu, attualmente alle prese con il tentativo di formare un nuovo governo.
I residenti di Sheikh Jarrah, tra un processo e l’altro, bevono il caffè nel cortile del Tribunale e sognano di poter un giorno viaggiare a Delaware – paradossalmente lo Stato americano rappresentato dall’allora senatore Joe Biden proprio quando la Nahalat Shimon Ltd veniva fondata – per proseguire le loro investigazioni sul campo.
Di concreto, invece, non gli resta che manifestare: da questo Ramadam, però, non più da soli.

L’autrice: Flavia Cappellini è giornalista e cineasta. Ha realizzato il docufillm Tour de Gaza, sul ciclista Alaa al-Dali, rimasto senza una gamba per un colpo sparato da un cecchino israeliano


L’articolo è stato pubblicato su Left del 21-27 maggio 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO