È fallimentare il bilancio della legge sulla regolarizzazione dei lavoratori dell’agricoltura e dell’assistenza domiciliare. Dopo un anno su oltre 200mila domande solo una su dieci è stata esaminata. Un incubo burocratico di cui è vittima chi già è meno tutelato

Un anno fa, in questi giorni, il governo Conte 2 approvava il decreto legge n. 34 con il quale, all’articolo 103, si impegnava a far uscire dall’irregolarità lavoratrici e lavoratori occupati in agricoltura e lavoro di cura attraverso un meccanismo costoso e pieno di ostacoli. Sono state presentate in poco tempo 207mila richieste, di cui meno del 15% in agricoltura, dove un salario dignitoso con un contratto regolare sembra ancora, per molti, un’utopia. Ad ottobre veniva poi approvata una timida riforma dei decreti Salvini. A che punto è l’applicazione delle due riforme?

Partiamo dalla “regolarizzazione”. Poche migliaia sono i permessi di soggiorno rilasciati. «Una situazione di stallo, con pesanti conseguenze in termini di sicurezza sociale, sanitaria e di legalità per il nostro Paese», attacca Giulia Crivellini, tesoriera dei Radicali italiani. Nel Recovery plan è previsto un piano per la lotta al lavoro sommerso e al caporalato, mediante “Incentivi per regolarizzazioni e maggiori ispezioni” intanto, a febbraio solo il 5% delle domande erano state esaminate, e lo 0,71% aveva concluso la procedura con 1.480 permessi rilasciati. Al 10 maggio c’è stata una accelerazione delle procedure. Gli sportelli unici delle Prefetture avevano richiesto il rilascio alle questure di 22.898 permessi di soggiorno mentre risultano rigettate 2.691 richieste di regolarizzazione e 861 rinunce. Le domande esaminate a tale data sono il 12,7 %, dopo 10 mesi. Per le prefetture la lentezza dei tempi è dovuta alla scarsità di personale addetto, tanto è che si è provveduto ad assumere personale con contratto interinale per aiutare gli uffici governativi.

Un numero sufficiente? Sentendo chi sta seguendo le vicende, la risposta è no. Michela Arricale, avvocata, ricercatrice del Cred (Centro ricerca elaborazione per la democrazia) e attiva in alcuni sportelli legali, racconta il disagio provato dopo un incontro alla Prefettura di Roma. «Il prefetto ci ha spiegato che per l’intera provincia lavorano alla regolarizzazione 13 persone e che ne stanno aspettando altre 25, ma restano poche. Il fatto è che – riprende l’avvocata – che questa regolarizzazione è nata sulla paura di non avere abbastanza lavoratori a buon mercato e quindi non ci sono stati controlli formali alla presentazione delle istanze, i funzionari hanno solo protocollato le domande. Tanti hanno presentato la richiesta pur non avendo i requisiti, solo per ottenere, nell’attesa, un titolo di soggiorno valido sapendo che la regolarizzazione è ferma. Solo in quest’anno si sono aperte delle quote per l’ingresso. Le persone con cui lavoro sono preoccupate. Non abbiamo ancora i dati quantitativi sui dinieghi, su cui vorremmo costruire un osservatorio in cui raccogliere le motivazioni. Tra l’altro questi sono impugnabili solo al Tar e costano 600 euro solo di bolli». Arricale parla di prassi illegittime, di errate iniziali interpretazioni delle norme che…


L’articolo prosegue su Left del 21-27 maggio 2021

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