Dall’India al Perù, viaggio tra le abitazioni di popoli indigeni che utilizzano materiali naturali creando capolavori di architettura vernacolare. Un rapporto armonico con l’ambiente che può servire per ripensare lo spazio abitativo in questo momento di crisi climatica e pandemica

Gli esseri umani hanno enormi capacità d’innovazione e questo dato è evidente soprattutto nella sterminata varietà di forme dell’edilizia vernacolare e spontanea diffusa in tutto il mondo. Negli ultimi anni ho avuto la fortuna di viaggiare tra mondi e culture dove ancora è viva la capacità di costruire la propria casa con gli elementi del territorio, sapendo gestire un rapporto di equilibrio con l’ambiente che la ospita.
Se guardassimo a chi non si è tuffato nell’onda del progresso senza meta delle megalopoli, potremmo scoprire che è ancora possibile soddisfare le nostre necessità abitative sfruttando meno le limitate risorse disponibili, provocare un impatto minore sui nostri fragili ecosistemi, generare un legame profondo tra i costruttori, l’ambiente, i materiali impiegati e l’intera comunità.

Tornare a essere homo faber è una necessità per il futuro che costruiremo, significa imparare di nuovo a essere donne e uomini artefici, in grado di trasformare la realtà grazie alle proprie capacità pratiche e intellettuali.
Nella società contemporanea viviamo una crisi del saper fare, soprattutto nell’ultimo periodo pandemico legato al Covid-19, siamo stati costretti a casa e le nostre relazioni sono state sempre più con e attraverso macchine e oggetti industriali; di fatto, stiamo vivendo una limitazione drastica delle esperienze sensoriali.

Una delle caratteristiche anatomiche principali di noi ominidi è il pollice opponibile che ci permette di manipolare gli oggetti con grande controllo e precisione; noi animali umani ci siamo plasmati culturalmente producendo e lavorando oggetti, e l’essere diventati sempre più homo comfort sta compromettendo passaggi cruciali della conoscenza manuale e culturale della nostra specie.

Gli edifici delle comunità indigene che ho incontrato in questi anni, di cui scrivo lungamente nel mio libro La casa vivente (add editore) e che racconto nell’edizione 2021 della Grande Invasione di Ivrea, non sorgono nel vuoto, fanno parte della vita e della cultura dei popoli che rappresentano, non rimangono immutate nel tempo, ma si modificano e si arricchiscono con l’incontro di nuove tecnologie costruttive.

Tra quelle che mi hanno colpito maggiormente ci sono le case della tribù Toda, che vive sull’altopiano Nilgiri nell’India meridionale, costruisce capanne che sono veri e propri capolavori di architettura vernacolare. Possono durare molti decenni a condizione che il tetto di paglia sia periodicamente revisionato, perché a queste latitudini la pioggia abbonda. Anche se non hanno fondamenta, fungono da…


L’articolo prosegue su Left del 28 maggio – 3 giugno 2021

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