Sempre più sbilanciato verso Salvini e Berlusconi, “fedele” a Confindustria. Con lo sblocco dei licenziamenti e la liberalizzazione dei subappalti il governo Draghi mostra definitivamente la sua vera natura neoliberista e la scarsa sensibilità sociale, favorito anche dalle ambiguità di Pd e M5s

Quando si insediò alla guida del Paese nel febbraio scorso Mario Draghi venne incensato dal coro quasi unanime dei media e da una schiera di politici e intellettuali vicini per storia e sensibilità al mondo appannato della sinistra. Che si trattasse di un’ubriacatura adolescenziale fu palese sin dalle prime battute. Ma nelle ultime settimane il velo di opacità è caduto e ora Mario Draghi e il suo esecutivo si mostrano per quello che sono: un governo sostanzialmente di destra, sodale alleato delle rivendicazioni di Confindustria e alfiere di una ricostruzione alimentata da picconate a quel che resta dei diritti dei lavoratori. In questo quadro si inseriscono l’intenzione di avviare lo sblocco dei licenziamenti dal primo luglio per le aziende dei comparti manifattura e costruzioni e la volontà di liquidare le regole sugli appalti e subappalti.

Sblocco dei licenziamenti e liberalizzazione dei subappalti sono misure che rispondono ad un disegno complessivo di governo della crisi. Le pressioni di Confindustria sul superamento del blocco ai licenziamenti sembrano aver avuto ragione in un esecutivo, sempre più sbilanciato sulle posizioni della Lega e dove pesano le ambiguità e le inconsistenze del Partito democratico e del Movimento cinque stelle. Entrando nel merito della misura, lo sblocco dal primo luglio riguarderà svariati settori produttivi, dalla metalmeccanica all’edilizia, dall’industria chimica al tessile, che occupano circa quattro milioni di lavoratori. Resta invece fermo al 30 ottobre il blocco per le imprese artigiane, del commercio e terziario.

Nelle ultime settimane la propaganda dispiegata dai media allineati alle posizioni di Confindustria e dell’esecutivo Draghi insiste sul fatto che lo sblocco dei licenziamenti non produrrà esuberi e non avrà ripercussioni sull’occupazione. L’argomento principale è che la ripresa della domanda estera e le riaperture avrebbero un impatto positivo sulla crescita, riducendo l’incentivo per le imprese di liberarsi di una quota di lavoratori in eccesso.

Peccato che questa non sia la realtà dell’economia italiana. Come evidenziato dal Rapporto sulla competitività dei settori produttivi pubblicato dall’Istat lo scorso 7 aprile, a fronte di una performance positiva di alcune branche dell’industria (agro-alimentare, farmaceutico, macchinari elettrici) ci sono settori che hanno perso quote rilevanti di mercato con il combinato disposto tra crisi sanitaria e crisi economica e la cui ripresa è molto più incerta.

Tra questi il settore tessile, abbigliamento e pelli, ma anche le costruzioni che hanno subito una contrazione robusta a causa della caduta della domanda interna. Settori interessati dallo sblocco dei licenziamenti dal primo luglio. Si tratta a ben guardare di quel pezzo di industria leggera, a basso contenuto tecnologico e ad alta intensità di lavoro. Tradotto: settori in cui il costo del lavoro incide enormemente sulle performance aziendali e in cui lo sblocco dei licenziamenti è lo strumento principale di recupero del profitto. Insomma, parliamo di aziende che hanno una bassa se non nulla propensione agli investimenti tecnologici e la cui ripresa passa dalla compressione del costo del lavoro. Non a caso la Banca d’Italia stima che lo sblocco dei licenziamenti avrà un impatto negativo sull’occupazione con una perdita che si aggira sui 500mila occupati in meno.

A dare la portata della voragine sociale che si aprirà dal primo luglio è utile ricordare che gli esuberi di personale avverranno in un contesto segnato dal superamento dei limiti al ricorso al contratto a termine (con il superamento del decreto Dignità) e dall’assenza di una riforma…


L’articolo prosegue su Left del 4-10 giugno 2021

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