Le speranze di trovare Saman ancora viva sono praticamente svanite.
Le rivelazioni del fratello, anche lui presunto responsabile della aggressione familiare subita dalla ragazza lo scorso anno, non lasciano margine ad ipotesi diverse dall’omicidio.
L’uccisione di Saman è un femminicidio e come tale, ha le sue radici nella cultura patriarcale che si alimenta delle religioni abramitiche, nel caso di specie, dell’islam.
L’Ucoii, l’Unione delle Comunità Islamiche Italiane, ha emesso una fatwa, ovvero una condanna religiosa contro i matrimoni forzati e contro le mutilazioni genitali femminili.
Se per un verso le dichiarazioni dell’Ucoii rassicurano sulla presa di distanza verso le aberrazioni che maturano all’interno delle tradizioni islamiche, dall’altra suscitano una riflessione ulteriore che desta ulteriori preoccupazioni.
La fatwa contro i matrimoni forzati è rivolta a comunità islamiche che, nelle intenzioni degli imam, dovranno conformarsi a quella interpretazione del diritto religioso.
Le comunità islamiche, dunque, non dovranno più imporre con violenza i matrimoni alle ragazze, non perché è un crimine secondo le leggi civili, ma perché la legge del Corano non va interpretata in quella direzione.
Con buona pace del primato della legge civile sulla legge religiosa.
Gli imam, con quella fatwa, non hanno richiamato gli islamici al rispetto dei diritti umani, non hanno sollecitato quelle comunità al rispetto delle leggi nazionali, dell’autodeterminazione, della libertà di scelta nel riconoscimento dei diritti universali.
Nulla di tutto questo.
I referenti spirituali delle comunità islamiche hanno condannato il femminicidio patriarcale islamico con una interpretazione islamica della legge religiosa.
Il Principio di Laicità e l’islam non sono compatibili.
Quella fatwa conferma che la teocrazia, intesa come primato della legge religiosa sulla legge civile, è prepotentemente emersa.
La fatwa nell’islam ha la stessa valenza della direttiva nel diritto canonico: in entrambi i casi si pongono in sovrapposizione delle leggi civili, con la complicità delle istituzioni che confondono la libertà di religione con il disprezzo dei diritti umani.
Il patriarcato abramitico si aggrava nella incapacità delle istituzioni di avviare una seria politica di integrazione con le comunità islamiche, spingendole ancora di più ad una dinamica di isolamento che radicalizza le loro tradizioni, all’interno delle quali la violenza del patriarcato trova terreno fertile.
E in assenza di integrazione le comunità islamiche non riconosceranno mai la legge civile della società che li esclude, trovando naturale riconoscere la priorità della legge religiosa quale elemento regolatore delle proprie condizioni.
La legge religiosa e la legge civile non possono essere alternative l’una all’altra, e la legge civile deve affermare il suo primato ma avrà autorità etica solo nell’inclusione e non nell’emarginazione.
Saman ha pagato con la vita non solo le aberrazioni del patriarcato di matrice islamica, ma ha pagato l’incapacità delle istituzioni italiane di avviare a percorsi di civilizzazione la sua comunità, che non può limitarsi al multiculturalismo.
Il multiculturalismo nelle applicazioni pratiche, si è concretizzato in un miope multiconfessionalismo attraverso il quale le peculiarità religiose che stabiliscono comportamenti e rituali per gli appartenenti ad una precisa comunità religiosa, trovano una tutela giuridica che segna una separazione netta con gli altri individui appartenenti alla stessa società ma non praticanti la stessa religione.
E’ legittimo e doveroso tutelare le differenze religiose, ma senza limitare l’applicazione della legge generale, e soprattutto indicando le modalità attraverso le quali le diverse culture possano interagire tra di loro in una interculturalità che porti alla integrazione e non alla esclusione.
Altri femminicidi come quello di Saman non avranno come responsabili solamente gli autori materiali, perché la responsabilità, a questo punto, sarà dell’intera società.
*L’autrice: Carla Corsetti è segretario nazionale di Democrazia atea