La mattanza di Santa Maria Capua Vetere ha radici profonde e rivela problemi strutturali nel sistema carcerario, dice il Garante nazionale dei detenuti. «Ovviamente non si può generalizzare, non tutti gli agenti sono così ma occorrono radicali interventi nella formazione della Polizia penitenziaria»

La ministra della Giustizia Marta Cartabia, in merito a quanto avvenuto nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 a seguito di alcune rivolte nate dalla paura della diffusione del Covid dietro le sbarre, ha parlato di «tradimento della Costituzione» e di «un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della Polizia penitenziaria deve portare con onore». 117 indagati, 52 persone raggiunte da misure cautelari, accusate a vario titolo di torture pluriaggravate, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio. Tenendo fermo il principio di presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva, tuttavia fa orrore quanto scrive la Procura sammaritana: «Il personale di Polizia penitenziaria aveva formato un “corridoio umano” al cui interno erano costretti a transitare indistintamente tutti i detenuti dei singoli reparti, ai quali venivano inflitti un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello». A ricevere le prime segnalazioni delle violenze è stato il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, un faro sempre acceso nel buio delle prigioni.

Garante, cosa ha provato appena ha visto il video pubblicato dal Domani in cui agenti della Polizia penitenziaria malmenavano moltissimi detenuti inermi e inginocchiati?
La prima impressione è stata quella di uno sguardo al passato, del tipo “Siamo ancora qui”. Quelle immagini mi hanno ricordato Genova, Bolzaneto. Trovarsi a 20 anni di distanza dai fatti del G8 del capoluogo ligure dinanzi a qualcosa che ricorda quei terribili giorni è particolarmente triste. Poi quelle immagini mostrano l’assenza di una qualunque catena di comando, una specie di branco che si getta contro altre persone. Anche l’utilizzo da parte di alcuni agenti penitenziari di affermazioni del tipo «abbattiamoli come vitelli» sanno di tifoserie da stadio da parte di gruppi di identità debole che si ritrovano in una falsa identità forte di tipo aggressivo. Inoltre quelle sequenze di violenza testimoniano un’operazione compiuta con la certezza dell’impunità, perché portata avanti nonostante le telecamere. Tutto ciò non è accettabile. L’altra riflessione è stata quella di interrogarmi su quali fossero le vittime. Ce ne sono di…


L’intervista prosegue su Left del 9-15 luglio 2021

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