Echo è una biblioteca ambulante tra i campi profughi in Grecia. «Vogliamo proporre un’idea di cittadinanza diversa», dice uno dei volontari che raggiungono ogni giorno luoghi diventati ormai dei ghetti a causa della politica del governo Mītsotakīs

C’è una biblioteca ad Atene che non è come le altre. Ha quattro ruote, copre tutta la penisola dell’Attica e al suo interno non si trovano manuali universitari. Si chiama Echo (Education community hope opportunity) e ogni giorno da cinque anni consegna libri ai rifugiati che vivono nei campi profughi della Grecia. Ferma durante l’ultimo anno a causa della pandemia, la biblioteca ha ripreso le sue attività da alcune settimane; quindi ho colto l’occasione per fare un paio di domande a Giulio D’Errico, uno dei responsabili del progetto, per saperne un po’ di più e avere qualche aggiornamento sulle condizioni di vita nei campi.

Com’è nata Echo?
Il progetto è stato avviato nel 2016 a Salonicco da un gruppo di volontari internazionali, per spostarsi poi ad Atene nel 2017. Qui il progetto si è espanso notevolmente: dalla capitale fino all’intera Attica. In questo modo è stato possibile raggiungere le persone meno integrate nella società, cioè chi vive nei campi, sostanzialmente. In una settimana visitiamo 10 campi diversi, da Corinto (a nord-ovest di Atene) fino a Capo Sunio (la punta in fondo all’Attica). Così almeno è stato fino all’inizio del lockdown, ora stiamo cercando di adeguarci alle misure che di volta in volta vengono predisposte dal governo. In questi cinque anni abbiamo sviluppato un catalogo il più possibile mirato alle comunità con cui collaboriamo: abbiamo libri in lingua farsi, araba, urdu, turca, curda, pashtu, bengali; ma anche testi in inglese, greco, francese e tedesco.

Come ricevete tutti questi libri?
Principalmente tramite donazioni; oppure, quando riusciamo a ottenere dei fondi specifici per i libri, li ordiniamo. A volte sfruttiamo anche i viaggi: se sappiamo che qualcuno deve andare in un determinato Paese, cerchiamo di farlo tornare indietro con la valigia piena. Diciamo che non ci limitiamo a distribuire saggi e romanzi, ma cerchiamo di costruire una sorta di ponte di comunità. Negli ultimi cinque anni, da quando sono arrivato in Grecia – anche se allora sembrava impossibile da dire -, i campi sono peggiorati, sempre più emarginati e separati dal resto della società; quindi, quello che cerchiamo di fare, è portare un po’ di “città”nei campi. A seconda delle richieste poi, teniamo delle lezioni informali di inglese e di greco, così da favorire l’integrazione linguistica; abbiamo anche una sessione per i bimbi.

Questo progetto, molto originale, viene accolto bene dai migranti?
Altroché! Uno dei momenti più belli è quando vediamo che settimana dopo settimana c’è gente che aspetta la biblioteca perché ha finito il libro e ne vuole subito cominciare un altro. Diversi rifugiati hanno già letto tutto quello che abbiamo! Il fatto di mantenere un contatto con la propria lingua d’origine è…


L’articolo prosegue su Left del 16-22 luglio 2021

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