La povertà e l’emarginazione delle persone romanì creano ricchezza per molte associazioni finanziate per aiutarle ad uscirne. Come si possono risolvere i problemi se chi li affronta ha tutto l’interesse economico e politico che esistano e che tutto rimanga uguale? Una denuncia senza mezzi termini dell’artista e autore del libro “Le verità negate” di cui pubblichiamo l’introduzione

La storia della popolazione romaní costituita da rom/roma, sinti, calé/kale, manouches e romanichals è sempre stata scritta dai non-rom, ossia dagli “altri”, con il difetto di essersi interessati in particolar modo ai soggetti emarginati e quasi mai a quelli integrati, onesti e produttivi. Una visuale molto parziale e spesso di parte. Questo ha prodotto uno strabismo che condiziona ancora oggi l’opinione pubblica e genera o rafforza stereotipi funzionali. Le società europee hanno preferito perseguitare le comunità romanès più che integrarle o interagire con loro. Spesso il razzismo ha avuto carattere istituzionale. Si è imposto un gioco di potere da cui la popolazione romaní non si è mai realmente liberata. E chi detiene il potere fa l’uso che vuole della minoranza etnica soggiogata e la rappresenta come meglio conviene. Nulla accade casualmente e tutto segue la logica funzionale al gioco politico. Del mondo romanó l’opinione pubblica ancora oggi ha un’idea parziale. Spetta ai membri delle comunità romanès fornire la parte che manca. Quest’opera va in tale direzione. È un dovere, ma anche un diritto, che spesso viene negato. Difatti, non sempre i romanès sono gli interlocutori; anzi, spesso sono il motivo di discussione.

La diffusa disinformazione sul mondo romanó rientra in una precisa strategia amministrativa. Le comunità romanès sono fortemente controllate dalle istituzioni per mezzo di associazioni di riferimento che esercitano un controllo sociale attraverso un assistenzialismo becero. Anche da qui nascono i numerosi e diffusi stereotipi negativi. Le società europee, in ogni epoca dal Rinascimento a oggi, hanno attuato politiche persecutorie precedute da propagande romfobiche.

Anche nell’attualità si compiono politiche discriminatorie e non si fa nulla per valorizzare una grande ricchezza linguistica, artistica e culturale che è patrimonio dell’umanità. Quasi tutti i progetti promossi in nome e per conto delle comunità romanès hanno carattere sociale. Alla cultura si destina pochissimo, quasi nulla. Anche per questo i diversi gruppi che formano la popolazione romaní sono percepiti dall’opinione pubblica come un “grande problema sociale”. In realtà con una seria e oculata politica di inclusione, coinvolgendo le stesse comunità e chi ha le giuste competenze, il fenomeno sarebbe assorbito facilmente. Non mancano le risorse ma la volontà politica di risolvere le difficoltà che quotidianamente diventano sempre più complesse e insormontabili.

Come si possono risolvere i problemi se chi li affronta ha tutto l’interesse economico e politico che esistano e che tutto rimanga uguale? È come mettere la pecorella in bocca al lupo. Chi si occupa per “mestiere” delle comunità romanès, attraverso progetti finanziati da enti pubblici locali o internazionali e da società o fondazioni, non ha alcun interesse dunque a cambiare la situazione. Sono sempre i non-rom e i sedicenti “rappresentanti” o “esperti” ad…


L’articolo prosegue su Left del 16-22 luglio 2021

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