Tutt’altro che cristallizzata, la società cubana è molto cambiata negli ultimi 25 anni. «Sono cambiati i cubani e le loro esigenze», dice la scrittrice e cooperante Carla Vitantonio che vive nell’isola e ci offre una lettura sfaccettata e complessa di quel che sta accadendo

Scrittrice e impegnata nel mondo della cooperazione, Carla Vitantonio oggi vive a Cuba, dopo aver trascorso quattro anni in Corea del Nord e due anni in Myanmar come capo missione per una Ong internazionale. L’abbiamo raggiunta via mail all’Avana per capire cosa sta accadendo nell’isola caraibica alle prese con il Covid-19 (che ha bloccato il turismo, unica vera fonte di introiti) e dove sono scoppiate fortissime proteste popolari.

Carla, per ritrovare accadimenti simili a Cuba bisogna risalire fino al lontano 1994 quando l’intero Paese era prostrato dalla gravissima crisi economica dopo la fine dell’Urss?

Gli eventi cui fai riferimento sono comunemente noti a Cuba come “El Maleconazo”, le manifestazioni di piazza che ebbero luogo nel 1994, quando la crisi provocata dal crollo del blocco sovietico era fortissima. Da allora a oggi non solo sono passati molti anni, ma sono cambiate molte cose nel Paese e nel panorama mondiale.

Una conquista democratica importante per uscire dall’isolamento è stata la possibilità di accedere al web?

L’apertura del Paese all’uso di internet negli anni Duemila ha sicuramente favorito, insieme al passaggio politico tra i fratelli Castro, a mio avviso sottovalutato da molte analisi politiche, una maggiore espressione del dissenso all’interno dell’isola, soprattutto attraverso i social media. In questi 25 anni ci sono state manifestazioni che non bisogna dimenticare. Un’importante campagna, accompagnata appunto anche da manifestazioni non autorizzate, fu condotta durante il processo di approvazione della nuova Costituzione tra il 2018 e il 2019. In quel caso si parlava di diritti della comunità Lgbtq+. Serve ricordare che in quell’occasione un peso decisivo fu giocato dalle Chiese fondamentaliste, che gestiscono molti servizi alla comunità – servizi di cui tutta Cuba ha bisogno – e che sono ampiamente foraggiate da Paesi ed interessi stranieri.

Il 2019 è stato un altro anno di proteste.

Sì, a partire dall’autunno del 2019. Data non casuale, che ha coinciso con la nuova stretta dell’embargo statunitense e conseguenti nuovi problemi di approvvigionamento per Cuba; da allora si sono susseguite manifestazioni localizzate, alcune evidentemente spontanee, altre molto meno. Si parlava di libertà di espressione per alcuni artisti, ma anche di libertà di impresa, tema che non va sottovalutato perché è forse una delle chiavi di volta di questo conflitto. Si parlava persino di leggi per la protezione animale, e la legge finalmente c’è. Insomma, in questi 25 anni Cuba non è stata ferma e cristallizzata, e i cubani sono cambiati, sono cambiati i loro principi, le loro esigenze e le loro ambizioni.

Rispondendo alle proteste di questi giorni il presidente Díaz-Canel è tornato a parlare di salute e educazione per tutti. Ha ricordato i vaccini cubani. L’impressione è che coloro che sono scesi per le strade oggi abbiano ben presente il valore di tutto questo e che sarebbero disposti a difenderlo. Ma patiscono l’infinita fatica del vivere quotidiano e non vedono prospettive. È un’impressione sbagliata?

I cubani sono fieri dei successi scientifici del loro Paese, e sanno che sono ancora più rilevanti perché ottenuti sotto embargo, in un mondo in cui quasi tutti i brevetti hanno componenti provenienti dagli Stati Uniti e quindi proibiti a Cuba. Hanno fiducia nel vaccino cubano, e infatti una delle richieste delle manifestazioni di questi giorni è proprio questa, che si velocizzi la campagna vaccinale. Tuttavia, come dici, questo è solo uno degli elementi che hanno portato alla protesta: vivere a Cuba è diventato estremamente difficile negli ultimi anni, l’inasprimento dell’embargo rende impossibile il reperimento di beni praticamente di ogni tipo, non esistono waiver umanitari (anche una Ong che cerchi di importare beni di prima necessità può essere sottoposta a sanzioni), e poi il Covid, la chiusura del Paese al turismo, le famose “tiendas en Mlc” (negozi dove si paga con la carta di credito, ndr) che vengono vissute come un affronto dalla maggior parte dei cubani, che non hanno accesso a valuta forte, di nuovo l’incubo dei blackout, anche questi collegati all’embargo, la difficoltà strutturale nell’avviare imprese, insomma, la lista è lunga. E sicuramente a queste recriminazioni che hanno del genuino si aggiungono macchinazioni come da copione, che purtroppo a me appaiono chiare e visibili. Un moto di protesta che scoppia contemporaneamente in 50 città ha molto poco di spontaneo, e la prontezza e ambivalenza di alcune reazioni pure. I successi ottenuti dallo Stato socialista sono innegabili, ma questo non è un gioco a somma zero, io credo che sia nobile e legittimo per i cubani che vivono sull’isola aspirare ad alcuni miglioramenti.

Quanto pesa su tutto questo l’embargo Usa?

Pesa moltissimo, più di quanto molti cubani non si immaginino. Da persona straniera che lavora a Cuba me ne rendo conto ogni giorno. Il Paese è strangolato dall’embargo. Questo perché gli Stati Uniti non si limitano a vietare alle proprie imprese di fare affari con Cuba, ma sanzionano qualsiasi impresa nel mondo lo faccia. Ciò è proibito dal diritto internazionale, ma è la prassi. Una banca italiana che volesse trasferire denaro a Cuba sarebbe sanzionata dagli Stati Uniti, con conseguenze nefaste per il proprio volume d’affari. E quindi nessuno si vuole mettere in pericolo per un’isola di 11 milioni di persone. Sono dieci anni che lavoro in Paesi che subiscono sanzioni Usa, purtroppo, sono oramai sono un’esperta. Si tratta di un meccanismo iniquo che va sempre a colpire i più deboli. Non c’è scampo.

Fino a quando ci sarà l’embargo io credo che sarà impossibile per i cubani, popolo e governo, fronteggiare i veri problemi di un Paese che ha nuove necessità e nuove ambizioni. L’embargo costringe ogni analisi a indietreggiare verso una logica da guerra fredda, un vestito che sta stretto ormai a tutti e che non permette di affrontare le vere istanze dell’oggi.

Il democratico Biden potrebbe invertire la rotta trumpiana oppure non vuole alienarsi i consensi della comunità cubana fuggita dall’isola?

Su Trump e sulle sue politiche non avevamo dubbi, Biden invece si sta rivelando una grande delusione. Avevamo sperato che riprendesse il discorso aperto da Obama, invece sta gestendo la questione cubana con il classico stile statunitense, colonialista, prepotente e spadroneggiante, nel resto delle Americhe. Rischio di ripetermi, ma quello che sta succedendo in questi giorni è la replica delle moltissime ingerenze statunitensi che abbiamo osservato negli ultimi cinquant’anni. Io temo che dietro di questo ci sia una mancanza di visione. Biden ha vinto le elezioni essenzialmente perché era l’unica alternativa seria a Trump. Abbiamo sopravvalutato questo signore, il quale sta stancamente premendo il tasto “play again” su questa crisi, semplicemente perché non ha idea di cosa fare. Che amarezza.

In Italia i medici cubani sono venuti per portarci sostegno e competenze nel momento più difficile per noi. Il governo italiano non ha risposto con altrettanta solidarietà?

Non sono una grande amante delle politiche estere del nostro Paese, tuttavia va detto che l’Italia dedica un fondo piuttosto ingente alla cooperazione con Cuba, attraverso la sua agenzia di cooperazione e i fondi alle Nazioni Unite. Certo, questi meccanismi non sono i più efficaci, spesso cadono in dinamiche post-coloniali, l’analisi delle necessità è sporcata dalle priorità del donatore e dalle mille contraddizioni della cooperazione, specialmente quando parliamo di Nazioni Unite. Con lo stipendio mensile di un funzionario potremmo rifornire la farmacia di un villaggio. Probabilmente politicamente l’Italia potrebbe esporsi di più, anche in seno all’Europa, fronteggiando con maggiore decisione alcuni Stati membri che lavorano attivamente per la caduta dell’attuale governo a Cuba. E avrebbe potuto organizzare delle donazioni di urgenza, ma credo che stiamo chiedendo troppo al nostro Paese, che ha una politica estera contraddittoria e debole, e con dei meccanismi burocratici farraginosi, che non permettono risposte rapide.

Quanto è importante tenere viva l’attenzione internazionale su quel che sta accadendo a Cuba nell’interesse della popolazione civile?

Sull’impatto che l’attenzione internazionale possa avere sulle attuali dinamiche cubane sono un po’ scettica. Io credo che questo sia un momento importante, forse decisivo, che deve essere vissuto internamente, tra Stato e cubani residenti, e sottolineo quest’ultima parola, perché io credo come molti che se i cubani della diaspora fossero stati davvero interessati al loro Paese sarebbero rimasti qui per migliorarlo. Penso che sia importante che si rispetti il principio della non ingerenza. Credo che sia necessario evitare che il conflitto si radicalizzi, che venga strumentalizzato. Credo che il governo cubano sia chiamato a una grande prova: la prova dell’ascolto. Ci sono molte cose che non sono nelle mani dell’attuale governo, è vero, ma molte invece lo sono, e su quelle si può lavorare.

Sei scrittrice e lavori nell’ambito della cooperazione. Il tuo lavoro per Add Pyongyang blues ci ha dato informazioni importanti di prima mano. Come riesci a tenere insieme questi due aspetti della tua vita? Verità e solidarietà possono e devono andare di pari passo?

L’essere umano e il suo diritto alla dignità sono al centro del mio lavoro. In tutti i miei anni in Asia ho imparato che, anche se la verità è una sola, ci sono molte narrazioni, e spesso il potere giace proprio nelle narrazioni. Nella mia vita, artistica e professionale, io propongo narrazioni che scardinino la gestione attuale del potere. Propongo dubbi, domande, cambio il punto di vista. Non mi interessa giudicare, preferisco cercare di capire, e spesso mi dichiaro sconfitta. In questo senso, non credo che il mio lavoro nell’assistenza umanitaria e il mio scrivere siano in contraddizione. Anzi, si rinforzano. Abbiamo bisogno di alternative.

Ti sei occupata molto anche di Birmania di cui hai scritto in Myanmar Swing (Add editore). Come vedi la situazione oggi nel Paese, dove la repressione è fortissima e la popolazione civile continua a pagare il prezzo più alto?

Facendo questo lavoro ho imparato che, davanti a una crisi (e ormai ne ho viste diverse) è importante avere bene presente lo scenario peggiore, bisogna averlo ben chiaro, perché da lì si può costruire per evitarlo, o per uscirne. Temo fortemente che in questo momento il popolo birmano sia vicino a uno degli scenari peggiori. Appare sempre più evidente che ciò che interessa la comunità internazionale, quando parliamo di un Paese così ricco di risorse, non è la democrazia, è la stabilità. E mi rattrista molto l’evidenza dell’iniquo paragone con la piccola Cuba, un’isola la cui unica risorsa è forse la sua posizione geografica. Come per le sanzioni, i più deboli pagheranno. Certo, si potrebbe arrivare a una sorta di governo di unità nazionale che permetta a Tatmadaw di salvare la faccia, tipico concetto asiatico, imprescindibile nelle analisi politiche, con la comunità internazionale, ma il prezzo pagato è già altissimo.


L’articolo prosegue su Left del 23-29 luglio 2021

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