Continua la resistenza dei dipendenti della Whirlpool, la multinazionale che ha avviato la procedura di licenziamento collettivo. Difendono il lavoro ma anche una storia politica e sociale. Chiudere lo stabilimento di via Argine a Napoli significa aprire un varco alla criminalità

Quello della Whirlpool è il settore che evoca più di ogni altro il boom economico. Elettrodomestici, lavatrici e frigoriferi. La prima smalteria acquistata a Napoli da una famiglia di industriali lombardi risale al 1949, smaltava i prodotti costruiti nella sede centrale. Lo stesso anno in cui al congresso nazionale della Cgil a Genova, Giuseppe Di Vittorio avanza la proposta di un piano economico per la rinascita dell’economia nazionale. In un Paese uscito dalla guerra con due milioni di disoccupati concentrati nel Mezzogiorno, più di un milione di braccianti occupati solo saltuariamente, con un tasso di scolarizzazione bassissimo e infrastrutture ai minimi termini. Poi via via, con la Cassa per il Mezzogiorno, nel 1956, unitamente ad altri insediamenti, lo stabilimento di via Argine, la crescita dell’occupazione – 800 addetti – i nuovi modelli automatici.

Una storia industriale, quella della Whirlpool, che è anche una storia politica, di rapporti di forza sociali. Una storia che non a caso arriva ora al dunque priva di protezioni e soluzioni. Queste lavoratrici e questi lavoratori sono in lotta da più di due anni, spesso isolati, con una solidarietà che per quanto cresciuta resta fragile. Priva di potenza reale.
Il loro è il racconto di una storia sociale. Come descrive Anna Cafaggi, entrata in azienda a 23 anni, e prima di lei – per 35 anni – suo padre. Quelli come lei, arrivati alla Whirlpool nella seconda metà degli anni Novanta, portano i segni di una condizione di crisi industriale e sociale che in quegli anni qui era già conclamata. «Mi sentivo gratificata – dice – perché avevo un lavoro con la certezza di uno stipendio a fine mese, mentre fuori da quella fabbrica non c’era nulla».

Anche per questo la loro lotta sta diventando emblematica. Lì, in quei quartieri di Napoli est, sono meno del 20 per cento le attività che riguardano la manifattura. E ciò che è rimasto – qualche bottega artigiana e poco più quasi sempre a gestione familiare – non occupa mai più di un paio di persone.
La fine dell’industria ha aperto anche lì varchi alla criminalità organizzata. Per questo il combattivo e intelligente sindacalista siciliano, Rosario Rappa, che ha scelto di trasferirsi a Napoli per guidare la Fiom in un’area cruciale del Paese, si sgola a spiegare che quello a via Argine è l’ultimo presidio di legalità che rimane. La gente resiste, c’è una tradizione non ancora del tutto travolta.

Eravamo ancora nel ’700 quando lì sorgeva la fabbrica dei Granili, il primo opificio importante. E poi, agli inizi del ’900, la Cirio, la Snia Viscosa, la Manifattura tabacchi, la Mecfond, le industrie petrolchimiche.
Ma il tempo cancella, scolora coscienze e abitudini. Difficile trovare equilibrio sociale tra…


L’articolo prosegue su Left del 23-29 luglio 2021

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