Tempo libero, tempo liberato. C’è bisogno di tempo per riprendere in mano la propria vita, per rigenerarsi, dedicando tempo agli affetti, alla qualità delle relazioni, alla socialità. Lo sanno bene i lavoratori del settore sanitario, della logistica, delle fabbriche, dei supermercati che durante la pandemia non si sono mai fermati.
L’ideologia della produttività a tutti i costi, che dopo la fine del lockdown si è tradotta nella corsa forsennata al recupero del profitto perduto, si è rivelata criminale come hanno reso evidente fatti drammatici come la strage del Mottarone e la morte sul lavoro della giovane Luana D’Orazio.
Due casi tristemente emblematici dietro ai quali ce ne sono centinaia di altri, uno stillicidio quotidiano di morti sul lavoro che troppo spesso non fanno neanche notizia. Manomissione dei freni per accelerare l’attività e accogliere più turisti in un caso. Manomissione dei dispositivi di sicurezza dell’orditoio per accelerare la produttività e tenere il passo con la concorrenza internazionale nell’altro. Queste le ipotesi degli inquirenti. Nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva ma non rifletteremo mai abbastanza sulla crudele insensatezza di quanto è avvenuto. Così come sulla uccisione del sindacalista Adil Belakhdim investito da un camionista che doveva consegnare a tutti i costi entro i tempi stabiliti.
Non sono purtroppo eventi casuali ed eccezionali se come ci dice l’indagine dell’Inail le morti sul lavoro sono aumentate dell’11% rispetto al 2019.
C’è bisogno di una riflessione radicale sul senso, sulla sicurezza e sulla qualità del lavoro in questa Italia che attende ancora di vedere segnali di ripresa, nonostante i primi stanziamenti dei fondi del Pnrr, in questa Italia dove lo sblocco dei licenziamenti ha sdoganato i tagli e le scelte dissennate e selvagge delle multinazionali come Whirlpool e Gkn che hanno mandato a casa centinaia di lavoratori dall’oggi al domani, dopo aver goduto di finanziamenti pubblici e non soffrendo di una crisi di settore.
C’è bisogno di un piano industriale per creare posti di lavoro, ma anche di un ripensamento complessivo del sistema capitalistico che impone turni di lavoro estenuanti a lavoratori sfruttati (a livello di schiavismo come è emerso dal blitz anti caporalato presso la più grande azienda di stampa italiana, la Grafica Veneta) mentre la disoccupazione è schizzata a livelli altissimi. C’è bisogno di quella riforma degli ammortizzatori sociali che andava portata a termine prima dello sblocco dei licenziamenti (come aveva proposto il ministro Orlando) ma c’è bisogno anche di un sistema più generalizzato di reddito di sostegno, perché troppi sono rimasti esclusi dai ristori. «Dove sta la tanto invocata “coesione sociale” che dovrebbe caratterizzare la transizione ecologico-digitale-infrastrutturale sospinta dalle enormi risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza?» si domanda giustamente l’ex ministro del lavoro e sindacalista Cesare Damiano in questo sfoglio di copertina.
Sui media mainstream veri approfondimenti su questi temi trovano pochissimo spazio, mentre molto ne ottengono ex presidenti del Consiglio che inneggiano al sistema lavorativo schiavistico dell’Arabia Saudita e, insieme alle destre, non trovano di meglio da fare che proporre un referendum abrogativo del reddito di cittadinanza. Beninteso non che sia una misura senza difetti (a cominciare dalla questione dei navigator, precari impiegati per trovare un lavoro ad altri). Ma in tempi in cui è aumentata a dismisura la povertà abolirlo non sarebbe certo d’aiuto.
Semmai sarebbe molto proficuo seguire l’esempio della Germania e di molta parte d’Europa riguardo a misure come il salario minimo. A questo riguardo è interessante quanto sta accadendo a Bruxelles dove è in discussione una direttiva che promuove una soglia retributiva minima al di sotto della quale non si può scendere. L’obiettivo è la lotta alle disuguaglianze e al lavoro povero, come scrive su Left il presidente del Partito della sinistra europea Heinz Bierbaum, approfondendo la scelta del governo tedesco di aumentare il salario minimo. Tema, purtroppo, quasi del tutto sparito nel dibattito italiano. Ancor più coraggioso e lungimirante è la proposta che viene da alcuni Paesi nordici (ma non solo) di sperimentare la riduzione di lavoro a parità di salario. Lavorare meno e lavorare tutti, sarebbe l’auspicio in un quadro di difesa del settore pubblico e dei servizi sociali. Un esponente politico di primo piano come la premier finlandese Sanna Marin ha rilanciato il dibattito su questo tema più di un anno fa. Una proposta diventata esperimento concreto in Islanda come ricostruisce su questo numero l’inchiesta di Leonardo Filippi, raccontando anche di analoghi tentativi in Spagna e della discussione che ha preso forza ora anche in Giappone.
Abbiamo un po’ provocatoriamente intitolato “Diritto all’ozio” questa nostra nuova storia di copertina dedicata al lavoro, pensando all’otium letterario dei latini, a quel diritto ad avere tempo per leggere, studiare, creare che dovrebbe essere di tutti e non solo di chi può permetterselo. Ricordando quel che diceva Marx riguardo al tempo liberato dal lavoro che ognuno dovrebbe poter dedicare all’arte e proprie passioni. Ma l’ozio si sa è sempre stato il demonio per la religione cristiana alleata al capitalismo che predica il lavoro, come fatica, come espiazione. Invece questa parola potrebbe essere degnamente rispolverata in un progetto di riorganizzazione radicale della società e del mondo del lavoro che metta al centro la dimensione umana, l’individuo con i suoi bisogni ed esigenze di realizzazione di sé nel rapporto con gli altri, il potenziale creativo della collettività. Tema affascinante e ancora tutto da esplorare per mettere in moto processi di trasformazione che non distruggano il pianeta e modelli di sviluppo non più basati sullo sfruttamento.
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