Abbreviare la durata dei processi è una conditio sine qua non imposta da Bruxelles per avere i fondi del Recovery plan. Ma la riforma Cartabia, pensata per questo e anche per mettersi alle spalle l’obbrobrio realizzato da Bonafede, scontenta tutti

Forse non è un caso che Orson Welles abbia scelto di girare nel Palazzo di Giustizia di Roma alcune scene de Il processo dall’omonimo libro di Franz Kafka. La triste vicenda di Josef K. che rimane inghiottito in un vortice giudiziario incomprensibile e interminabile, ben rispecchia la realtà della giustizia penale italiana, nota per l’eccessiva durata dei processi e per il sovraffollamento carcerario. Sono passati due anni da quando l’ex ministro Alfonso Bonafede ha tentato malamente con la legge “Spazzacorrotti” di intervenire sul suo malfunzionamento. La riforma ha introdotto il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sebbene i dati ci dicano che la maggioranza delle prescrizioni avvenga prima della sentenza di primo grado. Il solo effetto di quella riforma è stato quello di spianare la strada a processi potenzialmente infiniti. L’intervento normativo doveva essere accompagnato da una riforma strutturale che però non è mai arrivata.

A imporre una riforma per abbreviare i tempi della giustizia ci ha poi pensato l’Europa che ne ha fatto una condizione per la concessione dei fondi del Recovery plan, e questa incombenza è caduta sulla neo ministra Marta Cartabia e la sua squadra. L’impresa è titanica, sulla giustizia penale non è mai stato facile trovare un accordo e il governo Draghi è composto da forze politiche che sul tema non potrebbero essere più lontane.

Tuttavia, dopo mesi di consultazioni e reciproche rinunce, il…


L’articolo prosegue su Left del 30 luglio – 5 agosto 2021

Leggilo subito online o con la nostra App
SCARICA LA COPIA DIGITALE

SOMMARIO