Un ambiente di lavoro così perfetto da risultare inquietante. In cui il capitalismo adotta una disciplina militare e la lascia applicare a un algoritmo. Angelo Mastrandrea, nel suo nuovo libro L’ultimo miglio, indaga in profondità la realtà degli stabilimenti Amazon, e non solo

Angelo Mastrandrea, giornalista de il manifesto, di cui è stato anche vice direttore, e curatore dell’inserto settimanale ecologista Extraterrestre, scrittore reporter tra i più prolifici, affida i suoi reportage a Internazionale, Venerdì di Repubblica, Le monde diplomatique.Ha pubblicato anche libri ibridi tra memorialistica storica, giornalismo d’inchiesta e narrazione tout court come Il trombettiere di Custer e Il paese del sole, entrambi per Ediesse, e Lavoro senza padroni. Storie di operai che fanno rinascere imprese (Baldini e Castoldi). Da pochi giorni è in libreria il suo ultimo lavoro, L’ultimo miglio (Manni) un viaggio nel mondo della logistica, nuova frontiera di una economia capitalista sempre più autoritaria.

Negli ultimi anni sei tra i rari cronisti che hanno tenuto in vita il reportage narrativo come forma di conoscenza del mondo che va oltre il giornalismo dei fatti. Come è cambiato questo mestiere dai tempi di Ermanno Rea, che è stato uno dei tuoi maestri?
Può sembrare un paradosso, ma la crisi della carta stampata e del suo modello economico riapre degli spazi che parevano chiusi per sempre. Non che fossero sempre rose e fiori anche all’epoca. Hai citato Ermanno Rea, che per scrivere Mistero napoletano (pubblicato da Feltrinelli) ha dovuto attendere di andare in pensione, però di sicuro il suo viaggio a puntate lungo gli argini del Po è un piccolo capolavoro. Quello che voglio dire è che i giornali investivano nella scrittura: La Stampa mandava un Carlo Levi a raccontare la Cina di Mao e l’India di Nehru, Corrado Alvaro faceva scoppiare uno scandalo raccontando il mercato dei ragazzini schiavi a Benevento, e così via. Quando i giornali hanno preso a inseguire la televisione e l’ultima notizia di giornata, è stata la catastrofe. Pure i giornalisti si sono adeguati al linguaggio televisivo, al racconto per immagini, come se l’enfasi descrittiva potesse sopperire all’assenza di queste ultime. Su questo ha influito pure una certa sudditanza verso un modello anglosassone che privilegia il cosiddetto storytelling allo scavo e alla denuncia. Si è privilegiato, nei casi migliori, il ritmo narrativo alla profondità della parola. Credo che le ragioni più profonde della loro perdita di senso e di credibilità vadano cercate da quelle parti. Internet le ha solo estremizzate. Ora credo che siano maturi i tempi per un recupero della buona scrittura, quello che manca è il coraggio di investirci da parte dei giornali.

Nel tuo libro, L’ultimo miglio, edito da Manni, c’è una inchiesta magistrale sul mondo Amazon, una sorta di limbo prima del mondo robotizzato, un ambiente di lavoro nuovo che definisci «militaresco e disumano», quello di un capitalismo sempre più autoritario, ma che secondo te ricorda la fabbrica fordista. Per quale motivo?
Ascoltando i racconti dei lavoratori di Amazon, mi è venuto alla mente il Gian Maria Volontè di La classe operaia va in paradiso. Mi sono detto: il…


L’articolo prosegue su Left del 30 luglio – 5 agosto 2021

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