Ad un anno dalla tragedia, ancora nessuna chiarezza è stata fatta sulle dinamiche dell’esplosione, ed anzi secondo la denuncia di Amnesty International le autorità libanesi continuano ad ostacolare la ricerca della giustizia.

204 ritratti affissi lungo l’arteria principale del quartiere di Downtown, Beirut. È così che l’artista Brady Black ha voluto ricordare le vittime della tremenda esplosione che il 4 agosto 2020 ha sventrato il porto della capitale libanese, lasciando dietro di sé, oltre alle centinaia di morti, più di 7.000 feriti, 300.000 sfollati e interi quartieri e infrastrutture distrutti. Ad un anno da quella tragedia, ancora nessuna chiarezza è stata fatta sulle dinamiche dell’accaduto, ed anzi secondo la denuncia di Amnesty International le autorità libanesi continuano ad ostacolare la ricerca della giustizia. Il primo anniversario dell’esplosione si prospetta quindi incandescente: centinaia di persone si sono date appuntamento per scendere nelle strade e protestare in quella che non potrà che essere una giornata di profonda rabbia. Una rabbia che però non è legata solamente alla commemorazione di quella giornata di lutto, ma che raccoglie i sentimenti di frustrazione, disperazione e collera che la popolazione libanese sta vivendo a causa della grave instabilità sociale, politica e economica che attanaglia il paese da più di un anno. Da mesi infatti il Libano è attraversato da molteplici crisi che si rafforzano a vicenda, in quello che si configura come il periodo più buio dai tempi della lunga guerra civile. Da un lato il paese soffre gli effetti della crisi siriana: secondo le stime sono più di un milione e mezzo i rifugiati siriani che hanno fatto ingresso nel paese e che, andando ad unirsi alla già cospicua popolazione rifugiata, in primis palestinese, presente in Libano, fanno di questo la nazione con il maggior numero di rifugiati pro-capite al mondo. A questa, si aggiungono le conseguenze della drammatica crisi economica e finanziaria che non accenna a migliorare.

Secondo il Lebanon economic monitor, l’attuale crisi economica libanese è fra le tre peggiori crisi registrate a livello globale dalla metà del Novecento. La moneta locale ha perso più del 90% del suo valore e il tasso d’inflazione è in costante crescita, anche a causa della fortissima dipendenza dell’economia libanese dalle importazioni. Secondo il Wfp, il prezzo dei beni alimentari ha subito un incremento di oltre il 400%: se prima l’insicurezza alimentare colpiva quasi esclusivamente la popolazione rifugiata, ad Aprile 2021 il 47% delle famiglie libanesi dichiarava di avere difficoltà nell’accesso al cibo. Secondo le stime di Unescwa, più del 55% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, mentre il tasso di persone in condizioni di povertà estrema è triplicato passando dall’8% del 2019 al 23% del 2020. Persino carburante ed elettricità sono divenuti beni difficili da reperire; le luci che un tempo rendevano scintillante lo skyline di Beirut sono solo un lontano ricordo, mentre le lunghe file alle pompe di benzina sono oramai parte dello scenario quotidiano. Anche il Covid-19 non ha risparmiato il Libano, ed alla crisi sanitaria legata alla pandemia si uniscono le difficoltà nell’approvvigionamento di molteplici farmaci, per la maggior parte importati e quindi sempre più scarsi a causa della perdita di valore della moneta libanese. In questo contesto divengono ancora più profondi gli effetti della crisi politica e dello stallo istituzionale protratto in cui versa il paese. A seguito dell’esplosione del porto le proteste della popolazione, che già a Ottobre 2019 avevano invaso le piazze per 100 giorni nel corso della Thawra, rivoluzione politica, segnando un punto di rottura fra la società e la leadership politica libanese messa sotto accusa per le modalità di gestione clientelare e confessionale e per l’elevato livello di corruzione, si sono riaccese e il primo ministro Hassan Diab si è dimesso, ma ancora oggi le trattative per la formazione di un nuovo esecutivo sono bloccate dalle rivendicazioni settarie dei partiti e pertanto nessuna risposta viene data alle gravi problematiche che colpiscono il paese. Come conseguenza di questa situazione, si acuisce in Libano anche una profonda crisi sociale che porta con sé un aumento delle diseguaglianze nella società e l’accendersi delle tensioni sia tra le varie confessioni religiose presenti all’interno della popolazione libanese, che tra quest’ultima e la popolazione rifugiata.

Nel grande vuoto lasciato dalla politica e dalle istituzioni libanesi, è la società civile che prova a far fronte alle crescenti necessità delle persone. Mothers’ Cooking per esempio è un’impresa sociale che si occupa di supportare l’empowerment economico delle donne dando la possibilità a madri disoccupate di accedere al reddito attraverso la preparazione e la vendita di pasti tramite app. Attraverso il progetto “Wee.Can! Women Economic Empowerment: comunità ospitanti e rifugiate siriane per creare nuove opportunità di sussistenza” finanziato dall’Agenzia Italiana della Cooperazione allo Sviluppo (AICS) e implementato da Oxfam Italia, Cospe e Mais, ha ricevuto una sovvenzione a fondo perduto grazie alla quale ha contribuito insieme all’organizzazione Berrad El Hay alla distribuzione di pasti quotidiani alle persone rimaste sfollate dopo l’esplosione del porto. Nel 2019 Berrad El Hay ha infatti installato tre frigoriferi per lo stoccaggio e la distribuzione di pasti per le persone in condizione di povertà rispettivamente a Junie, città nel distretto del Monte Libano, e a Mar Mikhael e Achrafiye, due dei quartieri di Beirut maggiormente colpiti dalla tragedia del 4 agosto 2020. Nei mesi successivi all’esplosione, parte dei pasti preparati dalle donne di Mothers’ Cooking sono stati donati a Berrad El Hay e distribuiti attraverso questi frigoriferi alle famiglie colpite. Secondo Reema e Mirna, operatrici dell’organizzazione, se prima della deflagrazione l’associazione distribuiva in media circa 200 pasti al giorno, successivamente il numero è salito a quasi un migliaio.

Durante la visita alla loro sede, la voce di Reema diventa rotta e dalle sue parole si percepisce chiara la frustrazione mentre ricorda: «La mia casa è stata colpita dall’esplosione, eppure nessun rappresentante delle istituzioni si è presentato per offrirmi del supporto; sono stati i miei vicini a bussare alla mia porta per offrirmi il loro aiuto, e lo stesso ho fatto io con loro. L’unica risposta è la solidarietà, per questo anche un piccolo gesto come la donazione di 25 pasti giornalieri da parte di Mothers’ Cooking è fondamentale».
L’importanza della presenza della società civile viene sottolineato anche da Ahmad, presidente di Urda, l’organizzazione locale partner del progetto Wee.Can!, che specifica come attraverso le attività di micro credito per donne sia libanesi che siriane attivate dal progetto sia stato possibile supportarle in questo momento di grave instabilità economica. Ma Ahmad sottolinea anche come i bisogni della popolazione, sia locale che rifugiata, siano in costante aumento in tutti i settori: dall’accesso all’istruzione a quello alla sanità, dall’incremento dei casi di violenza di genere a quello della criminalità e delle tensioni settarie.

Il 4 agosto 2021 quindi non solo segna il primo anniversario dell’esplosione del porto di Beirut, ma mette in risalto il continuo deterioramento delle condizioni economiche, sociali e politiche dell’intero Paese, caduto in una spirale negativa dalla quale al momento non si prospetta ancora una via d’uscita.